teatri di silenzio

 
 

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Tihana Maravic, I teatri di silenzio

Tihana Maravic, Rumorosa solitudine

Tihana Maravic, L'esichia dell'attore (Grotowski e l'esicasmo)

Nazario Zambaldi, Luci della sera

Sandro Sproccati e Nazario Zambaldi, Concrete utopie

 

 
   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I teatri di silenzio

 

I teatri di silenzio

 

Le foglie d’autunno in un bosco d’estate. Il bianco del latte. Le mani. La neve. Sulla nave. Di notte. I teatri manufatti di materia silenzio. Paradossalmente non è una materia silenziosa ma, al contrario, vErbosa (che ha il piacere del verbo che cresce) e la sua essenza si trova nel cuore della lettera A. Dalla sua superficie si genera la parola che desidera essere detta a qualcuno. Non un silenzio sociale che cade, ma quello legato ad un bisogno profondamente umano di sentirsi, di sentire il SI, che sale dall’interno. Questa onda in salita fa sì che una scena interiore deve essere materializzata e data, donata, condivisa. Musicologo e filologo Marius Schneider in La musica primitiva  scrive che la “comparsa del fenomeno sonoro richiede una fiducia-forza più grande di qualsiasi altra forma di sacrificio”[1]. Tramite questo sacrificio sonoro il suono lega la terra al cielo. Abbiamo così in scena per terra un sonoro molto fine che diventa toccabile. Il silenzio si pratica, è una prassi corporea. Tutta la dottrina di sapienza di Plotino è fondata sull’esperienza del valore pratico del raccoglimento e del silenzio. Il silenzio come inizio del gioco e del pensiero, e il silenzio come fine del pensiero e la via d’accesso al divino. Il silenzio, dicevamo, non cade ma sale. E’ semplice: per andare in alto bisogna prima scendere in basso. E’ da lì che si parte. Dai piedi. Il movimento è duplice: dalla testa al cuore, dal cuore alla pancia, dalla pancia ai piedi, per poi risalire per uscire e per incontrare l’altro. Alla bocca, alle dita, ai capelli. Il tempo dei teatri di silenzio è uguale al tempo del gioco dei bambini è uguale al tempo del rituale è uguale al tempo della creazione artistica. E’ un tempo nel quale si ha l’esperienza del presente nel presente. L’artista bambino non pensa al dopo, il suo è un fare autotelico: un’immersione totale nella quale il dualismo tra il fare e l’essere scompare e nel quale il vuoto diviene (è) pieno. E’ un tipo di raccoglimento attivo che dal rigore e dall’attenzione arriva alla gioia: “L’atmosfera di gioia e di silenzio del cuore si raggiunge mediante la massima attenzione”[2] diceva Isichio il Sinaita parlando dell’esichia[3].

Voglio giocare con la lettera A. A è la casa, il primo giorno di scuola, l’essere-bambino. A è l’Abisso, il rituale della discesa. A è l’Albero, le dita i rami. Con A Abbraccio il cane, grande come la casa e il baobab insieme. A è Altrove. Dove? Dentro. A è Aprirsi All’Amore. A sono le Ali per Alzarsi e A é l’Animale per Abbassarsi. A è la grotta. A è l’Alba che Assaporo quando lo spettatore Artigiano sono.

Quando il gioco è finito e i bambini sono andati a dormire, cosa ci resta? Una stanza piena di silenzio, un po’ di disordine, gli oggetti-tracce sparsi qua e là, l’odore loro, qualcosa di nostro…Uno spazio nel quale tuffarsi. Per perdersi e per trovarsi.


[1] Marius Schneider, La musica primitiva, Adelphi, Milano, 1992, p. 51.

[2] Anonimo russo, La via di un pellegrino, Adelphi, Milano, 1972, p. 147.

[3] Esichia, dal gr. hesychia, quiete, pace interiore, silenzio. “L’esicasmo è un sistema spirituale che aspira alla hesychia” (Tomas Spidlik in AA.VV. Dizionario enciclopedico di spiritualità, a cura di Ermanno Ancilli, Città Nuov, Roma, 1990, p. 918.). La preghiera esicasta, detta anche la preghiera del cuore o la preghiera del silenzio cerca di far discendere il nous nel cuore

 

 

Testo per: teatri di silenzio, Centro Trevi, Bolzano, marzo 2007; progetto "genesi" con le scuole elementari a cura di Nazario Zambaldi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 

Rumorosa solitudine, Tihana Maravic

rmrs rmrz rmrs rmrz rrrrrrrr zzzzzzzzzzz

rmrss mrz rmrs rmrz rrrrrrr zzzzzzzzzzzz

rmrs rmrz rmrs rmrz rrrrrrrz zzzzzzzzzzz

rmrs rmrz rmrs rrz rrrrrrrr  zz  zzzzzzzzz

rmrs rmrz rmrs rmrz rrrrrrrzzzzzzzzzzzz

rmrs rmrz rmrs rmrz rrrrrrrz zzzzzzzzzzz

rmrs rmrz rmrs rrz rrrrrrrr  zz  zzzzzzzzz

rmrs rmrz rmrs rrz rrrrrrrr  zz  zzzzzzzzz

 

 

 

SOL SOOO LE SOOO LIIIII TUUUUUUU DIIIII NEEEEEEEE

    

    

 

     Mia cara. Sei mia. Sono tua. Non siamo sole. Come il sole. Tu per me sei. Vortice di pensieri. Terremoto [das Erdbeben] di immagini. Tutto è collegato. Fittamente. L a r g a m e n t e. Quando ci sei. Ti sento anche nell'acqua sotto la doccia, nel motore dell'autobus, nello spazzolino da denti. Mi piaci perché. Con te tutto abbonda. Quando ci sei. Creo come un bruco ed erro ed erro... Non mi fai dormire. Mi fai cantare. La testa urla.  E ride, dolcemente. Creatio tremens. Come sei bella, rumorosa solitudine! Quando ci sei tu, è possibile. Aggrovigliarsi con cinquemilanovecentosette lettere in un minuto e, subito dopo, chinarsi su una sola per un'ora. Quando ci sei tu, è possibile l'arte-vita di Hanta.

     In questa stanza ti sei manifestata. Hai preso corpo. Hai acquisito, in questa trasformazione dall'interiore all'esteriore, una limpidezza, un ordine attento ma morbido, che custodisce in sé (nei suoi quadri di piccolo formato) quel follere che sopra ho descritto e che ti è proprio. In questo  spazio ci sono le linee, visibili e invisibili, che riescono a mantenere vivo il tuo movimento (anche se circoscritto). Tra il vento che potrebbe esserci nelle tende bianche che coprono le tre finestre, e le trentuno foglie impresse nei trenta quadri di piccolo formato, intercorre un segreto. Il vento e le foglie si intendono. Insieme sorreggono la leggera oscillazione che tiene in equilibrio il su e il giù: l'impianto di nove macchine da scrivere e l'evanescenza dei trenta quadri  (legno di abete, plexiglas, carta in paraffina, foglia, foglia d'oro, inchiostro, chiodi, olio). In centro la foglia d'oro. Le cose, qui, sono tra loro tese. La mania cucita con il filo di seta. Tutto è collegato. Fittamente. L a r g a m e n t e.

 

 

Tihana Maravic

Testo composto per l'installazione "Rumorosa solitudine" presso il Centro della Cultura di Merano

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ESICHIA DELL’ATTORE (Grotowski e l’esicasmo)

Tihana Maravic

L’esicasta è colui che cerca di circoscrivere l’incorporeo in una dimora corporea.

San Giovanni Climaco

Fuggi, taci, riposa

Arsenio, nobile diacono romano, precettore dei figli dell’imperatore Teodosio, vissuto tra il IV e il V secolo a. C., ha trascorso una parte della sua vita come eremita nel deserto della Tebaide, in Egitto[1]. Un giorno, dopo aver tentato invano di porre termine alla condizione di malessere che lo opprimeva, Arsenio chiese a Cristo: “Che cosa bisogna fare per essere salvato? Cristo gli rispose con tre brevi parole: Fuge, Tace, Quiesce (hesychaze), fuggi, taci, riposa..

Fuggire il male per fuggire “verso Qualcuno”[2]. Spiritualmente, fuggire è affermare che il mondo non ha in sé il proprio senso e il proprio fine. Bisogna scappare da tutto ciò che ci allontana dall’essenziale e liberarsi, quindi, dall’attaccamento e dalla dipendenza[3].

Tacere, essere nel silenzio, ci permette di ascoltare, di essere presenti nel presente.

Nel greco profano esichia ha il significato di assenza di agitazione, pace, riposo, tranquillità: “termine dell’esichia è il silenzio di tutte le cose”[4], abbandono di qualunque pensiero, “anche dei concetti più divini[5]. Anche il pensiero deve dunque cadere nel silenzio, deve essere superato, affinché si possa avere esperienza del divino. Si tratta di un vuoto nel quale si è totalmente aperti al divino, che così può comunicarsi in pienezza.

La caccia al mistero del Vivente[6]

Jerzy Grotowski non ha mai scritto dell’esicasmo. Ne ha parlato nel 1982 a Roma, nel corso del ciclo di lezioni tenute all’Università La Sapienza. Di quelle lezioni è rimasta una trascrizione, mai rivista dall’autore, parzialmente pubblicata in un articolo di Chiara Guglielmi[7]. Ad ogni modo, i grandi temi della tradizione esicasta - come il ritiro dal mondo, il respiro, la ripetizione della preghiera, l’attenzione e l’apertura del cuore - sono sempre stati chiaramente espressi nei discorsi e nel lavoro del maestro. L’interesse per il mistero della vita e per le risposte religiose è vivo in Grotowski sin dall’infanzia. Quando dovette scegliere quali studi universitari intraprendere, era indeciso tra la psichiatria, le religioni induiste e il teatro. Si aiutò con la domanda: “Qual è il mestiere possibile per cercare l’altro e me stesso?”. Pur avendo seguito una vocazione artistica, lo studio delle religioni è rimasto la sua passione per tutta la vita, e lo spirito della ricerca, faticosa e puntigliosa, ha dato al suo teatro un’impronta scientifica. A partire dal 1956, anno in cui si recò per la prima volta in Asia centrale, questa ricerca delle radici si è concretizzata nello studio delle diverse tradizioni culturali e religiose ed in un  lavoro antropologico sul campo durante i suoi viaggi. Possiamo infatti inquadrare la ricerca della conoscenza di Grotowski come una ricerca a ritroso, “all’indietro”, verso le sorgenti: le sorgenti della propria cultura, del teatro e della percezione, “le sorgenti delle tecniche delle sorgenti”[8].

Durante il periodo del Teatro delle produzioni (1957-1969), tra Barba e Grotowski si parlava di due tipi di esercizi, di “tecnica 1” e di “tecnica 2”. Barba scrisse che la “tecnica 2” tendeva a liberare l’energia “spirituale” in ognuno di noi”. Si trattava di una pratica che “indirizzava il sé sul sé, dove s’integravano tutte le forze psichiche individuali e, superando la soggettività, permettevano di accedere alle regioni conosciute dagli sciamani, dagli yogi, dai mistici […][9].

Nella seconda fase del Parateatro (1970–1978) la ricerca del sé si “gioca” in stretta relazione con la natura, vertendo su temi chiave come “incontro” e “stato originario”. Successivamente, nel periodo del Teatro delle fonti (1976-1982), Grotowski iniziò un profondo lavoro di investigazione sui testi arcaici provenienti da quello che lui riteneva la culla della cultura mediterranea. Nell’ultima fase dell’Arte come veicolo (1986-1999), il lavoro si concentrò nello studio dei canti vibratori legati all’organico flusso del movimento.

            Conoscere meglio l’esicasmo è importante per conoscere meglio Grotowski. Non a caso è nella culla mediterranea che, congiuntamente all’esicasmo[10], fermenta anche la gnosi, altro tema chiave della ricerca di Grotowski. Il bizantinista Antonio Rigo sostenne che fu proprio alla scuola gnostica di Konya, nel Duecento - il secolo di Rumi[11] e del sincretismo tra mistica cristiana, esperienza sufi ed esperienza ebraica -, che nacque l’esicasmo[12].

            Nonostante molti studi sia teorici che pratici effettuati sul tema della ricerca spirituale, il corpus degli scritti di Grotowski è, come si accennava in apertura, piuttosto reticente per quanto riguarda questo tema. Si tratta qui della riservatezza della trasmissione, che è uno dei principi sostanziali dell’esicasmo. Gli esicasti dicono che la via della perfezione è di pochi e che quindi comporta un insegnamento spirituale riservato a pochi. Tutti gli uomini hanno in sé la possibilità di intraprendere la via della perfezione, ma non in tutti la domanda brucia ardente. E’ il problema della discrezione: l’indicibilità di ciò che viene sperimentato porta al silenzio.

Gustare la luce di Cristo, quella luce serena che attira la mente, è vivere qualcosa di inesplicabile, spiegabile non con parole ma facendone esperienza, per cui chi ne è partecipe è costretto al silenzio[13]

Il problema della trasmissione, l’opposizione binaria individuale/collettivo, la disciplina e il rapporto maestro–discepolo sono temi importanti per Grotowski come lo sono per le pratiche religiose di tipo monastico. Gli stessi sostantivi con cui Grotowski ama chiamare il proprio teatro rivelano l’analogia con il monastero. Nella prima lettera a Barba, ne La terra di cenere e diamanti,  si legge: “E adesso, caro Chela, perché non mi sono accomiato da te quando, con l’anima scossa dal vento, hai lasciato l’eremo?”[14]; nella tredicesima lettera: “Il trasferimento dell’ashram[15], anche senza alcun cambiamento, di per sé produrrà un ashram diverso”[16]. E ancora: “…la disciplina  del convento del Teatr–Laboratorium […] era di ferro, estremamente forte, molto rigorosa”[17]. Ashram, l’eremo, il convento, tutti i termini che si riferiscono ad un luogo sacro, dove in solitudine, e insieme agli altri, si svolge un lavoro silenzioso e rigoroso.

Ritorniamo ora al concetto dell’esichia. Può essere tradotto con “silenzio” o “calma” ed è anch’esso, come gli altri temi sopracitati, un principio comune a tutte le pratiche religiose. Il fatto che gli esicasti lo abbiano scelto per il proprio nome, ne amplifica l’importanza. Nella sua ricerca, Grotowski suggerisce la possibilità per l’attore di raggiungere un certo tipo d’attenzione nel quale si è completamente presenti. Dal canto suo, Stanislavskij aveva intuito la natura di questa consapevolezza come una “condizione particolare”, che egli definiva “calma creativa”. Era arrivato a comprenderla soltanto in parte, accorgendosi che nasceva quando l’attore rivolgeva la propria attenzione alla percezione e alle condizioni del corpo:

Mi resi conto che la creatività è, prima di tutto, la concentrazione totale di tutta la natura dell’attore[18].

Tuttavia, mentre Stanislavskij si era limitato a praticare una concentrazione psico-fisica, Grotowski ha esteso il concetto proponendo, di fatto, una condizione trascendentale, paragonabile ad uno stato mistico e transpersonale di coscienza ed esperienza che egli ha definito come “silenzio creativo”:

L’effetto del nostro lavoro deve essere indiretto […] [Il lavoro è guidato da] un desiderio di raggiungere gli strati più profondi dell’esistenza umana – la profondità dell’ambiente personale interiore, spirituale, dove regna il silenzio creativo e dove si ha l’esperienza del sacro[19].

E’ a partire da questa riflessione sul “silenzio creativo” che ho scelto la dicitura “l’esichia dell’attore” quale titolo dello studio presente.

La preghiera del cuore 

Nel Dizionario di mistica, sotto la voce “Esicasmo”, troviamo la seguente definizione di Renato D’Antiga:

Vocabolo greco hesychia significa quiete, pace interiore; il suo equivalente latino, potrebbe essere reso con tranquillitas animae, indicando la condizione vissuta dal cristiano perfetto quando si trova immerso nella luce increata di cui riceve l’illuminazione (photismos) divina[20].

Pierre Adnes nel Dictionnaire de Spiritualité precisa:

Hesychia è il termine che fin dall’età patristica indica, nel cristianesimo di lingua greca, la disposizione esterna ed interna necessaria per l’incontro con Dio[21].

Il termine esichia può avere quattro chiavi di lettura. La prima, che equivale alla traduzione della parola stessa hesychia, designa il particolare stato interiore di colui che prega. La seconda indica una forma di preghiera incentrata sulla ripetizione continua di un’invocazione rivolta al cuore, attraverso cui si  raggiunge l’esichia: “Un metodo pratico per raccogliere, purificare e unificare tutte le energie psicofisiche, al fine di sperimentare l’unione estatica[22]. La terza indica il movimento monastico dell’Oriente cristiano le cui origini risalgono ai Padri del deserto, e la quarta, che ingloba tutte e tre le precedenti, raffigura l’esicasmo come il sistema spirituale fondamentale dell’oriente cristiano.

L’esicasmo è quindi anche l’arte della preghiera. Vorrei qui citare un brano del libro Conversazioni con Kafka di Gustav Janouch che, in poche frasi, riesce a mostrare quanto  abbiano in comune l’arte e la preghiera e, quindi, il lavoro dell’attore e quello di un esicasta, i due principali soggetti di questo studio:

La preghiera e l’arte sono ardenti atti di volontà. Attraverso di esse si cerca di superare e ampliare le normali possibilità della volontà. L’arte è come la preghiera, una mano tesa nell’oscurità, che vuole afferrare una parte della grazia per poterne poi divenire dispensatrice. Pregare significa gettarsi nell’arco di luce trasfigurante che congiunge ciò che è transeunte a ciò che avviene, fondersi completamente in esso, per portare la sua infinita luce nella piccola, fragile culla della propria esistenza[23].

Quello che sembra fondamentale nel caso della tecnica di meditazione esicasta, è l’unione della concentrazione psicofisica con una breve formula di preghiera, la cui evocazione è sempre unita ad una respirazione consapevole[24]. Questo metodo aiuta a raccogliere l’intelletto e porta all’esperienza del ritrovamento del Sé.

La preghiera esicasta assume diverse denominazioni. Essa infatti è detta anche “di Gesù” (più correttamente “a Gesù”) perché è nell’invocazione del suo nome che culmina il lavoro psicofisico della meditazione. L’invocazione di Gesù, in questo caso, non è però assimilabile ad un mantra[25], efficace di per sé, ma rappresenta piuttosto un appello al soccorso, una domanda d’aiuto. Giovanni Climaco consiglia ai suoi discepoli di usare il nome di Dio contro tutte le sembianze del male che possono disturbare la preghiera:

Non esitare a andare di notte nei luoghi dove d’abitudine hai paura…Avanzando, armati della preghiera. Quando sei arrivato, stendi le mani. Flagella i tuoi nemici con il nome di Gesù, perché non c’è arma più potente in cielo e sulla terra[26].

La preghiera esicasta è detta anche “monologica”, centrata cioè su una ripetizione costante di una breve preghiera il cui elemento essenziale è il Nome di Dio: “Signore”. Giovanni Climaco ne era sostenitore:

La prolissità nella preghiera riempie spesso lo spirito di immagini distraendolo, mentre sovente una sola parola (monologia) ha per effetto di raccoglierlo…[27].

Si chiama anche “preghiera del cuore” (kardìa) perché ha come fine il risveglio del cuore.

Il metodo esicasta non comporta un “uscire da sé” (ex-stasi), ma piuttosto un “ritorno a sé” (en-stasi) per ritrovare il cuore come “luogo di Dio”. La conoscenza è subordinata alla carità che diventa la “porta della gnosi”[28]. Avere un cuore significa avere un centro, uscire dalla dispersione della sfera mentale e dai pensieri che vanno e vengono. Il cuore ha una funzione d’integrazione della personalità, esso congiunge la funzione vitale e la funzione intellettuale:

la nostra ragione non è all’interno di noi, come in un vaso, perché è incorporea, né all’esterno, perché è a noi congiunta, ma è nel cuore come nel suo organo. Anche il grande Macario dice: “Il cuore dirige tutto l’organismo e, allorché la grazia domina nel cuore, regna su tutti i pensieri e le membra. Là infatti risiedono la mente e tutti i pensieri dell’anima”[29].

La tecnica esicasta aiuta a raccogliere l’intelletto per condurlo al cuore. “Far scendere il nous[30] nel cuore” significa pacificarlo, centrarlo, fare del cuore l’organo stesso della coscienza; una coscienza non raziocinante. La discesa della mente nel cuore, che non è un movimento fisico spazio–temporale, è un atto d’integrazione. Nei testi esicasti le caratteristiche attribuite al nous si ritrovano anche nei riferimenti al cuore:

Il cuore è re, suoi pascoli i pensieri[31]; come un carbone che si accende, esso può generare pensieri luminosi[32]; come uno specchio, guardando il quale uno vede il proprio stato[33]; quando è purificato Cristo vi risplende come sole[34].

Nous e cuore non sono tuttavia la medesima cosa. Più specificatamente il nous si riferisce alla luce che scaturisce e il cuore alla materia che gli fa da sede. Il termine cuore avrebbe cioè una connotazione che implica un carattere di passività. Una prerogativa del cuore è quella di contenere. Esso è sempre sede di qualcosa: del nous, della sua essenza, delle potenze fisiche e psichiche. E’ la sede della grazia[35].

La preghiera del cuore è prima di tutto una preghiera di domanda e una preghiera di pentimento. La via della purificazione ascetica prepara l’anima all’incontro misterioso e intimo con Dio, che rimane il dono che Dio fa di sé all’anima. Questo è un punto fisso della mistica cristiana di tutti i tempi: l’esperienza di Dio è un dono, non si conquista.

Secondo la dottrina esicasta, l’anima orante è capace di percepire Dio sensibilmente e di avere accesso alla luce. I monaci d’Oriente insistono in modo particolare su quest’esperienza della luce e la ricollegano all’esperienza degli apostoli sul Monte Tabor. Si tratta di un’esperienza che viene difficilmente resa con la parola, la quale si dimostra insufficiente, deformante e povera per esprimere “un oggetto che trascende ogni pensabilità”[36].

Monaci e autori esicasti

Gli inizi dell’esicasmo risalgono ai Padri del deserto, agli eremiti per eccellenza e per antonomasia (gr. eremos, eremia = deserto). La fuga nel deserto, l’anacoresi, non è però una caratteristica delle prime generazioni di cristiani: solo alla fine del III secolo, e soprattutto nel IV, dopo che il cristianesimo venne dichiarato religione di Stato, che si verificò un esodo di massa verso i deserti d’Egitto, della Palestina, della Siria e della Mesopotamia.

“Il monachesimo faceva così da contrappeso a una Chiesa imborghesita e sonnolenta[37] dice Meyendorff con cui concorda il bizantinista Paparozzi, quando dice che il monachesimo è un’“alternativa permanente alla mondanità della chiesa”[38].

 Ritirandosi nel deserto, i monaci abbandonarono la missione, l’insegnamento, la beneficenza e spesso anche la pratica regolare dei sacramenti, abbracciando la preghiera come elemento essenziale della spiritualità cristiana[39].

Tuttavia l’epoca d’oro dell’eremitismo si concentra nei secoli IV e V secolo d. C. durante i quali, insieme alle Vite, si diffondono le raccolte degli Apoftegmi. Sono “detti” dei Padri del deserto, dai quali si evince che la vita eremitica aveva già prodotto un sistema spirituale, basato su concetti quali la lotta ai pensieri, la sobrietà, l’attenzione, il distacco interiore, la preghiera continua e quello che essi definivano “ricordo di Dio e riposo in Dio”.

La storia dell’esicasmo si potrebbe dividere in tre grandi periodi: gli inizi (dal secolo IV al X), il fiore (secoli XIII e XIV) e la rinascita filocalica (secolo XVIII).

Le radici più remote dell’esicasmo, secondo il grande storico delle religioni Elémire Zolla[40], sono le dottrine di Evagrio il Pontico e Macario, nate nel deserto egiziano dove il monachesimo ebbe origine verso la metà del III secolo[41]. Evagrio (345-399), essenzialmente platonico, concepiva l’uomo come un’intelligenza imprigionata nella materia: il corpo non poteva aver posto nella sua spiritualità. Macario, al contrario, insisteva sull’unione intima di corpo e anima e rivelava un’antropologia di stampo biblico: l’uomo è un essere unitario ed entra, come tale, in contatto con Dio. Si spiega così l’importanza attribuita al cuore quale centro dell’organismo e sede dell’intelligenza[42]. Questa concezione avrà particolare fortuna in tutta la mistica dell’Oriente cristiano.

Diadoco di Fotica (400-474), vescovo di Fotice in Epiro, nel V secolo fu uno dei maggiori divulgatori della spiritualità del deserto nel mondo bizantino. Il suo merito e quello di Giovanni Climaco consiste nella realizzazione di una sintesi tra Evagrio e Macario: così la “preghiera intellettuale” di Evagrio diviene in Oriente la “preghiera del cuore”, la “preghiera di Gesù” dove il “ricordo del Nome” occupa il posto essenziale.

I padri di Cappadocia, Basilio e Gregorio di Nissa, sono altrettanto meritevoli di menzione per la formulazione dottrinaria dell’esicasmo. La dottrina di Basilio (329-379) sull’eternità delle creature spirituali è anch’essa, come quella di Evagrio e gli altri monaci del suo tempo, influenzata dal platonismo. Sebbene la ragione non possa comprendere la trascendenza, l’intervento della grazia e di Cristo permette all’uomo di recuperare la propria origine divina. La contemplazione rappresenta così l’ultima fase della vita spirituale e un anticipo della beatitudine eterna. Basilio indica chiaramente la necessità del raccoglimento interiore per arrivare alla contemplazione:

Quando la mente non è più dispersa nelle cose esterne, né sperduta nel mondo a causa dei sensi, allora essa ritorna in sé; e per mezzo di se stessa ascende  al pensiero di Dio[43].

 Gregorio di Nissa  pone il problema dottrinale della conoscenza di Dio. Si tratta di un paradosso espresso nell’immagine di “tenebra luminosa”. Gregorio sostiene che la contemplazione consiste in un “vedere di non vedere”, in un conoscere “Dio nelle tenebre”.  Egli si pone così come uno dei primi rappresentanti cristiani di quella teologia negativa o apofatica che, partendo dall’Antico Testamento, passa per l’evangelista Giovanni[44] e arriva fino ad Agostino, Dionigi l’Aeropagita[45] e San Giovanni della Croce. L’inconoscibile si manifesta pur restando inconoscibile, e la sua inconoscibilità è ancor più profonda per colui che lo vede.

Soffermiamoci ora su alcuni autori sinaiti. Dal VI secolo, il celebre monastero fondato da Giustiniano sul Monte Sinai, diventa il centro di diffusione più importante dell’esicasmo. Tra i grandi dottori sinaitici si evidenzia Giovanni Climaco († 650 ca.) che fu igumeno[46] del monastero di Santa Caterina verso il 580-650 e ricevette il nome di “Climaco” per l’opera che lo rese celebre: la Scala (in greco Klimax) del Paradiso. Come in Diadoco, l’invocazione del Nome di Gesù occupa il centro della spiritualità monastica. Nelle Centurie Esichio (VIII-X secolo), riconducendo l’intero cammino spirituale alla sobrietà (nepsis[47]), ribadisce a più riprese la stretta interdipendenza tra la sobrietà e la preghiera di Gesù:

 La sobrietà e la preghiera di Gesù si sostengono a vicenda. L’attenzione estrema rinforza la preghiera continua e la preghiera, l’estrema sobrietà e attenzione della mente[48].

Tutti i dottori della grande epoca patristica appartengono alla tradizione “esicasta” intesa in senso ampio. L’epoca dell’esicasmo vero e proprio coincide con i secoli XIII e XIV. L’esicasmo tardo-bizantino si sviluppa nella penisola athonita e nel gruppo di monasteri della regione del Bosforo sul Monte Sant’Aussenzio. L’elemento più caratteristico dell’esicasmo tardo-bizantino è costituito dalla tecnica psicofisica dell’orazione. L’influsso esicastico non fu limitato al solo ambito ecclesiastico e religioso. Tipico della natura dell’esicasmo tardo antico fu l’apertura, oltre i confini monastici, verso il mondo laico. I monaci cercavano di diffondere al di fuori dei chiostri la pratica della preghiera di Gesù, che, a loro avviso, era il mezzo più potente per rendere reale ed efficace la grazia del battesimo.

Simeone il Nuovo Teologo (949-1022) (sebbene sia vissuto un paio di secoli prima dell’inizio dell’esicasmo inteso in senso lato), con una dettagliata descrizione della tecnica esicasta anticipa gli autori del XIII e XIV secolo. Unico fra i mistici ortodossi del Medioevo, egli si riferisce apertamente alla sua esperienza personale e intima, descrive le sue visioni, non teme d’opporre l’evento spirituale della mistica a certe istituzioni tradizionali della Chiesa. Simeone narra molto spesso di sé nelle Catechesi  e negli altri scritti in prosa, e nel suo diario, gli Amori degli inni divini, arriva a cantare della sua “storia d’amore” con Dio. L’uso del verso per esprimere l’esperienza mistica è un caso del tutto unico nella letteratura bizantina. Nel suo De sobrietate et attentione (Metodo della santa preghiera e attenzione) del XI secolo[49], Simeone descrive la particolarità dell’utilizzo del respiro nella preghiera esicasta. Simeone sostiene che per l’esichia non è sufficiente la scienza umana e neppure quella teologica: è l’uomo intero che deve essere coinvolto nell’avventura della ricerca di Dio, compresi, in primo luogo, i suoi sentimenti più intimi.

Niceforo il Solitario (ca. 1250), italiano di nascita e monaco sul Monte Athos, maestro di Gregorio Palamas, dopo una permanenza a Bisanzio sotto Michele VIII Paleologo (1261-1282) scrisse De sobrietate et cordis custodia (Trattato colmo di utilità sulla custodia del cuore). In quest’opera, che è stata erroneamente attribuita a Simeone e poi restituita a Niceforo, l’autore cerca di rispondere alla domanda: “Come ottenere l’attenzione?”. Il metodo proposto non ha altro fine se non quello del “ritorno in sé”, definito da Simeone come l’azione di “far discendere il nous nel cuore”. Nel caso di Niceforo trionfa di nuovo, malgrado secoli di tentazioni dualiste-neoplatoniche, l’antropologia della concezione biblica dell’uomo come di un tutto psico-fisiologico indivisibile.

L’ascesi corporea proposta da Niceforo deriva infatti “da questa constatazione molto semplice: che ogni attività psichica ha una ripercussione somatica. Il corpo, in modo sensibile e impercettibile, prende parte a ogni movimento dell’anima, si tratti di sentimento, di pensiero astratto, di volizione o anche di esperienza trascendente”[50].

 Questi opuscoli di Simeone il Nuovo Teologo e di Niceforo, come quelli di Gregorio Sinaita e i capitoli dedicati alle tecniche degli Xanthopouloi, si proponevano di fornire le istruzioni necessarie per la riconversione delle potenze psichiche ad una dimensione più intima dell’essere, il cuore. Essi si ponevano così sulla linea di una “mistica del cuore” che caratterizza gran parte della spiritualità cristiano-orientale.

L’inizio vero e proprio dell’esicasmo athonita potrebbe risalire alla comparsa di Gregorio il Sinaita (1255-1346), monaco sul Sinai e poi a Creta. I suoi brevi scritti sulla preghiera, assunti nel loro insieme, si presentano come un dettagliato manuale dell’esicasmo. I numerosi precetti, fondati su un’osservazione minuziosa degli stati psicologici del monaco, accompagnano prescrizioni relative alla “preghiera pura” e al metodo psico-fisiologico di Niceforo.

E’ importante evidenziare l’equilibrio intenso tra la spiritualità personale e la preghiera comunitaria che l’esicasmo del XIV secolo ha saputo trovare e che determinerà in larga misura il pensiero teologico di Gregorio Palamas[51] (1296-1349). Grazie a lui l’esicasmo non rappresenta più un sistema e un movimento limitato  ad ambiti monastici, ma comincia  a far parte della vita istituzionale della chiesa bizantina. Fra l’altro, egli è convinto assertore di un’antropologia unitaria:

Fratello, non senti forse l’Apostolo dire che “i nostri corpi sono tempio dello Spirito santo che è in noi” (1 Cor 6, 19), e ancora che “siamo la casa di Dio” (Eb 3, 6) […] Se si possiede la mente, perché indignarsi che la nostra mente abiti in quello che diventa naturalmente l’abitazione di Dio? E come mai Dio all’origine fece abitare la mente nel corpo?[52].

 L’ascesa spirituale non potrà consistere nella separazione dal corpo ma nella divinizzazione integrale dell’uomo (theosis).

Dopo la morte di Palamas, la produzione influenzata dall’esicasmo in sede propriamente mistica non è abbondante. Un testo ampiamente diffuso nei secoli posteriori è la Centuria di Callisto e Ignazio Xanthopouloi, due monaci athoniti della seconda metà del XIV secolo. In questo scritto i monaci Xantopoulois ribadiscono i fondamenti della pratica esicasta.

Per il secolo successivo è importante menzionare Nil Sorskij (1433-1508), il “padre” dell’esicasmo russo. Il suo monachesimo testimonia la povertà evangelica che si oppone ad ogni ricchezza. Evitando formule precise, lasciando ai monaci la più ampia libertà riguardo ai dettagli delle pratiche esterne (come il digiuno, di cui si limita ad affermare la necessità), egli invita a concentrare l’attenzione sulla preghiera di Gesù.

Nei due secoli che separano Nil dalla “rinascita filocalica” del 1700, l’uso della preghiera sopravvive sebbene si registri un diffuso silenzio sul versante della produzione dei testi. Anche se vengono dimenticati gli aspetti più propriamente tecnici, l’abitudine a recitare incessantemente una breve formula contenente il nome di Gesù rimaneva sempre viva: la sua semplicità era consigliata ai più umili e ai monaci occupati nei lavori dei campi o in altri mestieri manuali.

La rinascita spirituale avviene nel XVIII secolo. Il Monte Athos restava il centro principale della vita religiosa ed è nelle sue biblioteche che si forma Nicodemo Aghiorita (1731-1805). Nel suo Manuale dei consigli sulla custodia dei cinque sensi, dell’immaginazione, della mente e del cuore, diversi passi sono consacrati all’orazione nell’aspetto di tecnica psicofisica. In collaborazione con il vescovo di Corinto, Macario, egli pubblicò nel 1782 a Venezia (dove si trovava l’unica tipografia greca allora esistente) una raccolta di scritti di monaci della Tebaide e di santi bizantini intitolata Philokalia (“Amore del Bene”). Il volume muove dall’importanza assegnata alla “preghiera di Gesù” secondo il metodo esicastico del secolo XIV. I testi raccolti sono divisi in due gruppi: il primo presenta quelli più antichi dove la preghiera è solo suggerita e sottintesa; il secondo tutti i testi prodotti nel secolo XIV dove la formula viene espressa, commentata e associata a modi d’impiego. Attraverso quest’opera il mondo moderno conobbe la tradizione della preghiera esicasta. Sebbene la raccolta di Nicodemo sia piuttosto carente dal punto di vista critico essa, tradotta in slavo e poi in russo (con numerose aggiunte), si pone all’origine del grande risveglio esicasta del XIX secolo in Russia e in altri paesi ortodossi.

E’ stato un suo contemporaneo, Paisij Velickovskij (1722-1794), a pubblicare nel 1793 a Pietroburgo un’edizione slavo-russa della Filocalia intitolata Dobrotoljublje.

Nei primi anni del secolo XIX alcuni discepoli di Paisij alimentarono un risveglio del monachesimo esicasta. All’interno di questo rinnovamento si evidenzia un fenomeno di un’importanza eccezionale: gli starci (“vegliardi”) di Optino[53]. Ad Optino l’antico profetismo esicasta ricompare in pieno XIX secolo con una potenza e autenticità che attirò a sé non solo dei novizi in cerca di vocazione, ma folle di laici che cercavano una direzione spirituale, tra cui ritroviamo Gogol, Dostoievskij[54], Khomiakov, Soloviev, Tolstoj. La maggior parte del tempo degli starci[55] era consacrato al servizio degli uomini. L’esempio più chiaro di questa santità manifestata ad Optino è Serafino di Sarov (1759-1833), personalità estremamente isolata  tra quelle dei grandi santi della Chiesa ortodossa contemporanea. Sono celebri i suoi Dialoghi con Motovilov[56] ove appare tutta la mistica della luce.

            L’enorme successo editoriale del Pellegrino russo[57] è alle origini della conoscenza dell’esicasmo anche in Occidente. La Rivoluzione sovietica , inoltre, contribuì enormemente alla diffusione della spiritualità ortodossa in Occidente, costringendo molti intellettuali ad emigrare in Europa e in America. Lossky, Bulgakov, Florensky, Evdokimov sono solo alcuni dei responsabili della divulgazione della spiritualità esicasta nel mondo latino e anglosassone, e furono maestri per una nuova generazione di teologi come Meyendorff, Ware e Clément. Nella seconda metà del XX secolo[58] si è verificato un notevole interesse nei riguardi dell’esicasmo da parte dalla Chiesa cattolica. Vanno segnalati i contributi di due studiosi del Pontificio Istituto Orientale di Roma: Irénée Hausherr e Tomás Spidlík.

 Le tecniche

Esamineremo ora quattro testi che descrivono più dettagliatamente la tecnica psicofisica della preghiera esicasta.

Il metodo della santa preghiera e attenzione di Simeone il Nuovo Teologo.

Nell’introduzione Simeone scrive che l’attenzione e la preghiera sono connesse come l’anima e il corpo, “mancando l’una nemmeno l’altra sussiste”. E ancora,

Sono esse la porta della vita e della morte, cioè l’attenzione e la preghiera[59].

Simeone ricorre qui al concetto di attenzione come equivalente dell’esichia[60]. Il testo prosegue individuando i principali passi che occorre percorrere per raggiungere l’esichia. Prima ancora di cominciare la preghiera, bisogna “acquisire tre cose”: la prima è la “morte a tutte le cose cioè “l’assenza di preoccupazioni (amerimnia[61]) sia per le cose irrazionali che razionali”; la seconda è “una coscienza pura” e la terza è il distacco dagli attaccamenti, la liberazione dai legami cioè “la libertà da ogni passione”[62]. La condizione necessaria per l’acquisizione di queste “tre cose” è la separazione dal mondo. Il ritiro dal chiasso, dai disturbi, dalla quotidianità. Occorre allontanarsi da questo mondo per avere la possibilità di entrare nell’altro, quello interiore:

Quindi seduto in una cella tranquilla, in disparte, in un angolo, fa quello che ti dico: chiudi la porta, ed eleva la tua mente al di sopra di ogni oggetto vano e temporale[63].

Solo così è possibile assumere la posizione della preghiera appoggiando “la barba sul petto”. Simeone è dunque il primo che parla esplicitamente di un particolare tipo di respirazione:

comprimi l’inspirazione che passa per il naso in modo da non respirare agevolmente.

La posizione del corpo in cui il mento tocca il petto rende difficile la respirazione nasale provocando così il rallentamento del ritmo dell’espirazione-inspirazione che aiuta a fissare l’attenzione. È un effetto spontaneo di un vero rilassamento corporeo. E’ solo allora che può cominciare la concentrazione sull’ombelico e sulle parti “basse”; dirigendo

l’occhio corporeo, assieme a tutta la mente nel centro del tuo ventre, cioè nell’ombelico […] esplora mentalmente all’interno delle viscere per raggiungere la meta, per trovare  il centro, cioè il posto del cuore ove sono solite dimorare tutte le potenze dell’anima[64].

Partendo dall’ombelico la mente risale al cuore in un moto circolare: in questo percorso la mente è costretta ad attraversare “il paese delle viscere” per trovare infine l’asilo del cuore. Alla trasmutazione dell’uomo partecipano dunque anche le parti “grossolane”, come sostiene il bizantinista Antonio Rigo. L’uomo intero è in gioco. Una volta discesa nel cuore la mente troverà:

dapprima […] oscurità  e una durezza ostinata, ma perseverando in quest’opera notte e giorno, troverai, oh meraviglia!, una felicità infinita. Infatti, non appena il tuo spirito ha scoperto il luogo del cuore vede all’improvviso quanto non aveva mai visto: vede l’aria che si trova al centro del cuore e vede se stesso tutto luminoso e colmo di discernimento […]. Il resto lo apprenderai con l’aiuto di Dio, nella custodia della mente, mantenendo  Gesù nel cuore; infatti è detto: “Siediti nella cella e questa ti insegnerà tutto[65]

Il Trattato colmo di utilità sulla custodia del cuore di Niceforo Athonita.

Scritto nella seconda metà del XIII secolo, si apre con un’idea di luce e di ritorno in sé:

Voi che desiderate ardentemente ottenere la grandiosa e divina manifestazione di luce (photophaneia) del Salvatore nostro Gesù Cristo, voi che volete ricevere sensibilmente nel cuore il fuoco sovraceleste […] Dunque ritornate; o meglio, per parlare più esattamente: torniamo in noi stessi, fratelli […] Non possiamo, infatti, accedere in altro modo al perdono e alla familiarità di Dio se non torniamo - o meglio entriamo - in noi stessi, per quanto ci è possibile[66].

Niceforo crede che il metodo d’orazione debba essere praticato sotto la direzione di un padre spirituale, che è più facile trovare all’interno di una vita monastica. Propone quindi, dopo le prime considerazioni, le Vite dei Santi e i loro scritti[67], riprendendo l’idea, già presente in Simeone, della separazione del mondo e sviluppando quella del “ritorno in sé”: la condizione necessaria per poter avere l’esperienza sensibile dell’unione con Dio che si manifesta in forma di luce, in fotofania. Come Simeone, consiglia un posto appartato e una coscienza pura, libera dalle preoccupazioni:

Ma prima di tutto che la tua vita sia tranquilla, priva di ogni preoccupazione. Allora entra nella tua camera, chiuditi dentro ed essendo seduto in un angolo fa come ti dico[68].

L’autore del Trattato non dà nessuna indicazione per la posizione del corpo e rimane assente dalla sua tecnica ogni disciplina respiratoria:

Siediti dunque, come ti ho detto, raccogli il tuo spirito, introducilo–dico il tuo spirito–nelle narici; è la via che percorre il respiro per andare al cuore. Costringilo a discendere nel cuore assieme all’aria che respiri[69].

Non viene raccomandato, a differenza di Simeone, né di rallentare né di “ritenere” il respiro. Si può parlare piuttosto di un’attenzione estrema al percorso dell’aria inspirata che naturalmente porta al rallentamento della respirazione.

Lo spirito scende al cuore insieme al respiro. Una volta raggiunto il cuore, deve essere pronunciata la formula:

All’inizio sarà difficile e penoso mantenere lo spirito nel cuore, ma poi, con l’abitudine, esso non vagabonderà più all’esterno, ma rimarrà costantemente nel cuore. Quando lo spirito si trova nel cuore l’occupazione instancabile dell’esicasta dovrà essere l’invocazione “Signore Gesù Cristo Figlio di Dio abbi pietà di me!”[70].

La Preghiera di Gesù compare qui nella sua forma “classica”, mentre nell’opera di Simeone non aveva nessuna forma definita.

Il primo grado dell’orazione è la preghiera vocale, la preghiera della lingua, dopo la quale avviene il processo d’interiorizzazione della formula, cioè la vera preghiera del cuore:

Dopo aver scacciato da lì ogni pensiero (lo puoi, basta che tu voglia), donagli il Signore Gesù Cristo Figlio di Dio abbi pietà di me e grida interiormente queste parole escludendo ogni altro pensiero. Col tempo, quando ti sarai bene impadronito di questa pratica, essa ti aprirà l’accesso al cuore, così come ti ho detto, indubitabilmente: ne ho fatto personale esperienza[71].

L’esperienza della potenza dell’interiorizzazione della preghiera è espressa nella confessione di un giovane monaco che dice a Simeone:

Dimenticai il luogo dove mi trovavo, chi ero e in qualche posto, limitandomi a gridare: “Kyrie Eleison”, come riprendendo conoscenza, mi sorpresi a ripetere. Ma chi era colui che parlava, padre, o che faceva muovere la mia lingua, non lo so…, ma Dio lo sa[72].

Sulla Hesychia e i due modi della preghiera in 15 capitoli di Gregorio Sinaita.

A differenza di Niceforo, Gregorio Sinaita sostiene che non sia necessario far ricorso alle sacre scritture perchè

ognuno dei fedeli è stato stimato degno di portare iscritta nel proprio cuore la legge dello Spirito e di conversare con Gesù nella preghiera pura[73].

Ricorre sovente nei suoi scritti l’idea del dolore e della fatica di chi pratica la preghiera di Gesù:

Dal mattino siediti su uno sgabello alto un palmo[74] […]. Faticosamente curvo con un forte dolore al petto, alle spalle e alla nuca, grida con perseveranza nella mente e nell’anima: “Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me” […]. Trattieni il respiro in modo da non respirare agevolmente.

e più avanti ancora:

Malgrado la scomodità, rimani costantemente seduto su uno sgabello per la maggior parte del tempo…piegato in due…le spalle e la testa doloranti[75].

Gregorio consiglia ai principianti una formula per l’orazione molto più breve rispetto a quella “classica” dell’esicasmo, trattandosi essenzialmente di un’invocazione d’aiuto; la formula intera viene invece consigliata a coloro che si trovano più avanti nel cammino spirituale.

Per quanto riguarda la respirazione, anche Gregorio parla espressamente di una “ritenzione” dello spirito. Ma aggiunge anche un nuovo elemento: il rallentamento del respiro viene accompagnato  dall’invocazione di Gesù, il nome di Gesù deve essere “respirato”. In questo modo il praticante cerca di disciplinare lo spirito.

Cita Climaco:

La memoria di Gesù sia unita al tuo respiro e allora conoscerai l’utilità della hesychia  e“L’amore  di Dio deve precedere la sua respirazione”,  e un altro ancora: ”Il monaco deve avere la memoria di Dio come respiro[76].

Egli stesso scrive: Comprimi il tuo spirito dalla tua ragione nel cuore e trattienilo là”[77] Piegato in due, raccogliendo il tuo spirito nel cuore, se questo è aperto invoca in aiuto il Signore Gesù[78].

Queste frasi espongono quale sia il primo scopo della tecnica d’orazione: far discendere lo spirito nel cuore. Nell’esicasmo successivo questa tecnica è diventata dominante, e la stessa frase “far discendere lo spirito nel cuore” diviene uno stereotipo usato in riferimento alla fine del metodo esicastico.

Le Centurie di Callisto e Ignazio Xanthopouloi.

Le Centurie sono una vera e propria introduzione alla vita esicastica. Il punto XXV dice:

Al tramonto del sole […] siediti sul tuo sgabello, in una cella tranquilla ed oscura, raccogli il tuo spirito dalla sua abituale distrazione e dal suo vagabondaggio, spingilo allora lentamente nel cuore insieme al tuo respiro ed attaccati alla preghiera: Signore Gesù Cristo Figlio di Dio abbi pietà di me![79]

In un passo successivo viene definita la ragione di quell’appartarsi in un angolo buio e solitario che viene prescritto con insistenza dai nostri autori:

La vista infatti distrae e disperde per natura la ragione negli oggetti visti e guardati, tormentandola e diversificandola. Se la imprigioniamo, come abbiamo detto, in una cella quieta e buia, cesserà di essere divisa e diversificata dalla vista e dallo sguardo. E così la mente, suo malgrado, si pacificherà parzialmente e si raccoglierà in se stessa, come dice il grande Basilio: “Una mente non dissipata nelle cose esteriori, né dispersa dai sensi del mondo, ritorna a se stessa”[80].

Per quanto riguarda in particolare la pratica, si legge:

Parallelamente[81] al respiro introduci, per così dire, le parole della preghiera seguendo il consiglio di Esichio: al tuo respiro unisci la sobrietà ed il nome di Gesù e la meditazione della morte[82].

La pratica qui descritta si distingue nettamente da quelle contenute nelle opere di Simeone e di Niceforo: mentre in queste ultime si consigliava di ripetere la formula solo dopo aver trovato il “luogo del cuore”, in questo testo è prescritto di accompagnare la recitazione della preghiera con il respiro.

Secondo i Xanthopuloi la preghiera esicasta deve essere pronunciata per mezzo di un movimento circolare comprendente due fasi. Nella prima si lancia l’invocazione della formula (“Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio”) in maniera ascensionale, mentre nella seconda fase (“abbi pietà di me!”) si ritorna in se stessi appartandosi nella profondità del cuore.

Volendo tentare una sintesi delle diverse tecniche di preghiera finora esaminate, bisogna rilevare come tutti gli autori siano concordi nel consigliare all’esicasta un luogo appartato, invitandolo quindi a sedersi.

L’esicasta, ritirandosi, rinuncia in un certo senso al mondo esterno. Per poter pregare deve essere libero dai legami e deve avere una coscienza pura. Solo così potrà raggiungere l’attenzione, cioè la concentrazione interiore necessaria per far penetrare la mente nel cuore. I padri esicasti pongono sempre in rilievo l’importanza della frequenza dell’invocazione del Nome di Gesù. Sant’Isichio ci restituisce, a questo proposito, una bellissima metafora:

Alla stregua della pioggia che, quanto più diffusamente penetra, tanto più ammorbidisce la terra, così il Nome di Cristo da noi invocato ricrea e rallegra la radice del nostro cuore, a misura che lo invochiamo più assiduamente[83].

La recitazione della preghiera di Gesù può essere alternativamente formulata, in modo completo o abbreviato. C’è la possibilità di recitare la formula esicasta secondo le diverse alternative: ora piena ora abbreviata, con o senza la lettura dei salmi, seduti o in piedi, braccia distese, facendo seguire alla refezione la ripresa della preghiera e della lettura dei Padri.

Esistevano due tecniche respiratorie diverse:

  1. ritenzione del respiro (Gregorio consiglia di trattenere il respiro serrando le labbra; Simeone parla dell’aria inspirata per via nasale).ritmizazzione del respiro (Xanthopouloi). La recitazione della formula scandisce e regola il susse

  2. guirsi di inspirazioni-espirazioni provocando così, indirettamente, un rallentamento del ritmo respiratorio.

Il tema della discesa della mente, con o senza la concentrazione sull’ombelico, implica l’esplorazione delle viscere e la ricerca del luogo del cuore. Teofane il Recluso in L’arte della preghiera scrive:

Dalla testa dovete discendere nel cuore. Per il momento, i vostri pensieri sono nella vostra testa. E Dio sembra che sia fuori di voi, così tutti i vostri esercizi spirituali rimangono esteriori. Fin tanto che sarete nella vostra testa, non potrete dominare i pensieri, i quali continueranno a turbinare come la nave al vento o come le mosche durante i calori estivi[84].

L’antropologia esicasta è dunque perfettamente biblica, ossia unitaria (soltanto l’uomo nella sua interezza può ricevere la grazia). Essa pone l’accento sui due ritmi fondamentali della nostra esistenza psicosomatica: quello della respirazione e quello del cuore. La dottrina esicasta insegna che questi due ritmi ci sono stati dati dal Creatore per permettere alla vita divina di appropriarsi dell’intimo del nostro essere, di avvolgerlo e di penetrare con la sua luce nella nostra esistenza.

E infine, importantissimo, il riferimento costante a Dio, il Suo ricordo in qualsiasi momento e atto perché “Tutto lo sforzo del monaco diventa peccato senza la meditazione della memoria di Dio” scrive Abba Isaia alla sua discepola Teodora Angelina, figlia dell’imperatore Isacco II Angelo[85].

Nel suo saggio Tecniche esicastiche Rigo distingue quattro diversi metodi di orazione:

  1. la tecnica contenuta nelle Centurie degli Xanthopouloi consiste nella ripetizione della formula “Signore Gesù Cristo Figlio di Dio abbi pietà di me” ad ogni inspirazione e nella discesa di essa nel cuore assieme al respiro ed al nous;

  2. la tecnica di Simeone è caratterizzata da un movimento circolare e dalla preliminare “onfaloscopia”[86] accompagnata dal rallentamento del respiro. Giunti al luogo del cuore, deve essere ripetuta l’invocazione di Gesù;

  3. la prima tecnica consigliata da Niceforo consistente nel far discendere il nous nel cuore insieme al respiro, e qui ripetere “Signore Gesù Cristo abbi pietà di me”;

  4. la seconda tecnica di Niceforo, caratterizzata dall’interiorizzazione della formula e basata escluusivamente sulla ripetizione delle parole “Signore Gesù Cristo abbi pietà di me”.

Prima che sia possibile ogni effetto dell’orazione, bisogna “far discendere il nous nel cuore”. Su questo punto concordano tutti coloro che si sono occupati di orazione. Palamas scrive: ”ricondurre e rinchiudere il nous nel corpo e, soprattutto, nel corpo che è all’interno del corpo, il cuore”[87]. Quindi sarà il cuore il luogo in cui si svolgerà il raccoglimento e il centramento del nous solitamente disperso nelle cose[88]. Niceforo aggiunge che il nous nel cuore diventa “uno e nudo”[89]:

Callisto e Ignazio Xanthopouloi nel Degli stessi santi nostri padri (Sugli effetti della preghiera della mente e del cuore), compongono una breve sintesi degli effetti immediati dei metodi, o meglio dei fenomeni psicofisici concomitanti:

Innanzitutto si fanno sentire nel corpo di colui che si dedica e presta attenzione alla  preghiera delle vibrazioni […]. Si manifesta pure un calore all’altezza delle reni […]. Si manifesta inoltre un altro calore nel cuore […]. A volte […] sopraggiunge del sudore, a causa del grande calore prodotto dal corpo, e allora si mette in movimento, a partire dal cuore, la santa operazione […]. Allora nasce da questa santa preghiera anche uno stupore del cuore, allora dalla santa operazione deriva una grande consolazione. Sgorgano e zampillano pure dal cuore lacrime colme di dolcezza e scendono dagli occhi con delizia: questa è la gioia-tristezza […] e tutto il corpo diventa bruciante […]. A chi si trova in questo stato avvengono altri fatti straordinari. Egli vede all’interno uno splendore che lo mostra più luminoso del sole e che fa sgorgare la luce dal suo cuore. Si verificano all’interno del cuore anche altri misteri che non posso mettere per iscritto[90]

Sul piano antropologico–culturale l’esicasmo costituisce una “tecnica del corpo”[91]. In questo senso viene spesso definito lo yoga cristiano e comparato allo dhikr islamico[92]. Come già abbiamo precedentemente indicato, Rigo sostiene che l’esicasmo sia nato nel sincretismo tra la mistica cristiana, islamica ed ebraica. E’ difficile dire in che misura un elemento abbia influenzato o sia stato influenzato dagli altri due. Gardet sostiene molto semplicemente che:

Una preghiera del Nome divino, legata alla respirazione, era talmente diffusa negli ambienti musulmani che è impossibile negare una compenetrazione reciproca delle due spiritualità[93].

E’ importante ora capire qual è la differenza fondamentale tra la preghiera esicasta, il dhikr e lo yoga:

Il metodo psico-fisiologico non è che un metodo tra gli altri per realizzare l’attenzione e la custodia di cuore. Esso, pur essendo una condizione necessaria alla vera preghiera, non né costituisce né l’essenza né lo scopo ultimo. In questo la preghiera dell’esicasta cristiano si distingue radicalmente dallo Yoga indù e dal Dhikr musulmano che sono delle tecniche che conducono, più o meno automaticamente, allo stato mistico ricercato[94].

La discesa del nous nel cuore

Grotowski, seguendo l’insegnamento del suo maestro Stanislavskij, aspirava a toccare il non tangibile attraverso le vie concrete e pratiche [95] . Era convinto che l’esperienza fosse l’unica fonte della conoscenza ed è proprio questa convinzione, congiunta al suo modo di trasmettere la ricerca ai propri allievi - come osserva giustamente Guglielmi[96] -, che lo avvicinano in qualche modo al mondo dei mistici. Gli stessi esicasti infatti affermano:

Tutti coloro che hanno l’esperienza, infatti, ridono di quelli che li contraddicono per l’inesperienza. Il loro maestro non è la parola, ma la fatica e l’esperienza tramite le fatiche. E’ quest’ultima a generare i frutti utili…[97].

Nel corso del tempo l’uomo ha subito una frattura esterna (il contatto con il mondo) e una interna. La frattura interna si riferisce alla frattura tra la mente e il corpo. Nelle Centurie degli Xanthopouloi leggiamo:

E dove è il corpo, là sia la mente, in modo che non ci sia nulla di estraneo tra Dio e il cuore, come un muro divisorio o una siepe che oscuri il cuore e lo separi da Dio[98].

Tutto il lavoro su se stessi ha l’obiettivo di sanare questa spaccatura. Grotowski sostiene che la mancanza di fiducia nel corpo, che è in effetti una mancanza di fiducia in se stessi, è la causa principale della divisione dell’essere…

Non essere divisi: è non soltanto il seme della creatività dell’attore, ma è anche il seme della vita, della possibile interezza[99].

L’attore cerca, tramite gli esercizi, di trascendere questo stato di incompiutezza e di divisione tra il corpo e l’anima, coscienza e incoscienza, riflessione e istinto, sesso e cervello, e di raggiungere lo stato di originaria integrità e totalità. Esistono molti modi per “raccogliersi” e per trovare la libertà nel caos: quello preferito dagli esicasti è la preghiera del cuore. Tutta la tradizione spirituale ortodossa è fondata sull’idea dell’integrità del corpo e anima.

Grotowski riteneva che solo trascendendo la propria individualità fosse possibile raggiungere l’integrità. Il metodo dell’autopenetrazione ha come meta il superamento dell’autobiografico e il raggiungimento dell’universale: quando tutto ciò che è intimo e personale viene rivelato, rimane quell’essenza spirituale comune a tutti. Nel fare ciò il doer [100] si espone a diversi pericoli[101].

Gli esicasti affermano che nel processo è fondamentale tenersi lontano dai logismoi [102] , da tutto ciò che è legato ai fantasmi, alla fabulazione, al fascino dei fenomeni straordinari. L’autopenetrazione nell’esicasmo consiste in primo luogo nella ritrazione dei sensi dall’oggetto delle passioni, per poi giungere ad una condizione in cui “eccetto la vita ed il respiro, bisogna uscire da tutto il resto”[103]. È dunque necessario che il nous si distacchi dalle cose esteriori, ritorni a se stesso, guardi se stesso, oltrepassi se stesso e si unisca a Dio, perché, come è detto anche nei Vangeli, “il regno dei cieli è dentro di noi” (Lc 17, 21), per cui

… custodisciti, osservati ed esaminati…cioè non lasciare senza sorveglianza né una parte dell’anima, né un membro del corpo[104].

“Spingendo”, “scendendo”, “comprimendo” il nous nel cuore, è data all’uomo la possibilità di conoscersi. Franco Ruffini ne La stanza vuota [105] riporta un brano del saggio Nuovo Testamento del Teatro [106] (che Grotowski aveva tagliato nell’edizione del suo libro) in cui il maestro parla del transfert del nostro io cosciente, che avviene tra la testa e la regione del cuore. Tecnicamente parlando, per escludere il pensiero dall’azione e per rendere spontaneo l’impulso senza la perdita della precisione, bisogna raggiungere lo stato della “verità calma e dolorosa di se stesso”[107]. Per fare ciò Grotowski suggerisce di partire da una delle seguenti vie, poiché ognuna di esse contiene le altre. Le tre vie sono: l’attitudine introspettiva (che equivale all’autopenetrazione), il rilassamento fisico e la concentrazione di tutto l’organismo nella regione del cuore. Si tratta di elementi tipici della meditazione. L’esicasta che si prepara alla preghiera compie infatti, le medesime azioni.

Anche chi non lavora personalmente al passaggio dal nous al cuore, ma partecipa al lavoro di qualcun altro può sentire come il proprio cuore lavora. Riguardo al lavoro di Main Action[108] , Thomas Richard testimonia:

Guardavo e ascoltavo, e per qualche motivo la mia mente non si chiedeva ‘Che cosa stanno cantando?’ o ‘Che cos’è?’. E a un certo momento nell’area del petto ha cominciato a muoversi, qualcosa di assolutamente sconosciuto, che mi faceva un po’ paura, qualcosa che era come una sensazione calda di bruciore, nel petto[109].

Di fronte ad un atto vero, ad un atto di rivelazione, lo spettatore diventa testimone. Anche se l’atto non è compiuto specificamente per lui, ma in sua presenza, egli è lì per testimoniare l’accaduto con estrema attenzione. Inoltre, se si tratta di un individuo disposto al cambiamento, può sperimentare in forma ridotta gli effetti del processo. Questo fenomeno viene chiamato da Grotowski induzione. Lo stesso Palamas osserva:

…anche il corpo partecipa in una certa misura della grazia che opera nella mente, si conforma ad essa, riceve una certa sensazione del mistero ineffabile dell’anima e, a coloro che in quel momento guardano dal di fuori quelli che la possiedono, fa un po’ intravedere quanto avviene nell’interiorità[110].

L’uomo è abituato a fare solo ciò che ha uno scopo, inoltre possiede la tendenza ad accumulare cose, idee, emozioni; non importa cosa, quello che importa è accumulare. D’altra parte lo imbarazza il silenzio, non sa come comportarsi, non sa cosa fare con il proprio vuoto.

Molto spesso l’attore erroneamente crede che la sua preparazione dovrebbe consistere nel riempirsi di profonde esperienze emozionali. Invece, deve trovare uno spazio vuoto dove il flusso scorra in lui inavvertito[111].

Il corpo “vuoto” può svolgere la funzione di canalizzatore delle energie, il cosiddetto corpo–canale, dentro il quale far scorrere il flusso naturale e organico della vita. Spesso accade che il flusso sia ostacolato da blocchi psicofisiologici. Con un particolare tipo di training si cerca di lavorare sui blocchi per eliminarli e per dare via libera agli impulsi. Una volta liberato, il flusso diventa organico e può fornire materiale per l’espressione artistica. Essere nel flusso ha una duplice valenza, significa essere coscienti delle azioni, ma non della consapevolezza stessa. Vuol dire anche “non spaccare la vita con il pensiero”[112]. Quando un attore è nel flusso l’intervallo tra l’impulso interiore e la reazione esteriore viene annullato; il flusso di associazioni del suo corpo–memoria scorre libero. Non è più la testa che dice cosa fare, è il corpo che sa. Facciamo nuovamente riferimento all’esperienza di Richards:

…era come se il corpo cominciasse a condurmi–assolutamente da sé–in un flusso di movimento che veniva da dentro, una corrente di impulsi che fluivano attraverso il corpo. Era una scoperta che scorreva come un fiume. Io stavo un po’ distaccato a guardare. La mia mente non manipolava più il corpo, dicendogli “Vai qua, vai là”; adesso era il mio corpo a condurre  me[113].

Per sperimentare il flusso l’attore può usare i canti della tradizione, che equivalgono al mantra che i monaci buddisti usano per il loro viaggio nella verticalità, o alla formula della preghiera nei monaci esicasti. Anche il testo, in quanto parola viva, può essere lo strumento della trasformazione dell’energia.

Grotowski reputava che l’azione interiore[114] si svolgesse all’interno dell’uomo in un moto circolare. Nella preghiera esicasta ci sono due modi di movimento circolare. Il primo si riferisce, come abbiamo già detto, alla tecnica della respirazione secondo Simeone il Nuovo teologo. Vi è, infatti, un primo momento preliminare, detto “l’onfaloscopia”, una discesa nelle zone “grossolane” del corpo (la regione dell’ombelico) seguito da una risalita alla ricerca del luogo del cuore.

Il secondo viene descritto da Palamas:

Essa [la mente] agisce da un lato, in conformità alla sua capacità di osservazione esterna (quanto il grande Dionigi chiama il movimento “in linea retta” della mente), e dall’altro ritorna su se stessa e agisce in se stessa quando vede se stessa. Questo è chiamato il suo movimento “circolare” dallo stesso Padre[115].

Già dai titoli delle principali opere esicaste, come Metodo della sacra preghiera e dell’attenzione e Sulla vigilanza e la custodia del cuore, si percepisce quanto sia importante il rapporto tra attenzione e preghiera. Sembra, a volte, che si fondono in una cosa sola. Letteralmente nepsis significa sobrietà, temperanza, vigilanza. La funzione propria della nepsis è quella di mantenere la mente sobria, impedendole di conversare con i pensieri. Implica l’attenzione (prosoché) ed è in apposizione alla custodia del cuore. In alcuni autori è frequente trovare uno scambio nell’uso del termine nepsis e prosoché. La vigilanza è l’atteggiamento spirituale fondamentale dell’esicasta. Esseri vigili vuol dire stare all’erta, tenendosi lontano dalle fantasie e conservando una sorta di sorveglianza del cuore e dell’intelletto. Il termine vigilanza piaceva molto a Grotowski, che esigeva dai suoi allievi un atteggiamento vigile costante, anche fuori dal lavoro, nella quotidianità. Sosteneva che è necessaria una coscienza vigile, per prevenire la possibilità del caos”[116]. Questa disposizione di vigilanza è legata in maniera diretta con la purezza del cuore, con l’esichia o la quiete (Grotowski usava anche il termine inglese “stillness”) e con il movimento in riposo.

Nel processo dell’esichia il progressivo acquietarsi del nous non deve essere inteso come un processo di spegnimento verso la staticità. Il nous, essendo vivo, rimane sempre mobile, si tratta solamente di un altro tipo di movimento, il movimento-riposo. Il movimento che allo stesso tempo e riposo coincide con lo stato di allerta. In tal stato la coscienza resta in riposo, ma contemporaneamente, al suo interno, avviene del movimento: il battito del cuore, la respirazione, le emozioni, ecc. La stessa cosa succede con il corpo, si muove, ma la coscienza rimane tranquilla. Grotowski ritiene che questo sia il punto cruciale in cui si generano le differenti tecniche delle fonti.

Un altro termine che Grotowski usa per esprimere lo stato di allerta è la coscienza organica. Nell’ottava lettera a Barba, Grotowski definisce come organico “sia quello che prima (per me) era “organico”, sia quello che consideravo dipendente dall’intelletto”[117]. Ciò significa che a questo tipo di coscienza partecipa l’intelletto, quando diventa “alto” (come afferma Ruffini[118]), oppure che con il rientro del nous (che è anche intelletto) nel cuore, l’uomo diventa riunificato e non esiste più differenza tra intelletto e anima, corpo e anima. Nel processo organico si è unificati; fuori da questo processo si è divisi in due parti, dove una sorveglia l’altra. E’ il super-ego che controlla e comanda. Quando entra nel processo, il super–ego si muta in qualcosa di simile al “sé” junghiano e non sorveglia più, ma testimonia. Nel processo organico è all’opera lo stato di allerta. Ciò avviene anche agli esicasti quando osservano il proprio respiro: sono unificati e nello stesso tempo sono all’erta. Un altro fenomeno caratteristico della coscienza organica è la continuità, nelle due valenze: interiore, in relazione alla presenza del flusso, esteriore, nel senso del movimento continuo e non interrotto. Dalla continuità del movimento si può riconoscere la trance malsana da quella sana, caratterizzata da un moto fluido. Grotowski racconta che i padri esicasti, i padri vigilanti che vivevano sulle montagne, non cercavano uno stato di trance come ebbrezza, ma al contrario, cercavano una coscienza chiara e vigile, “che hanno chiamato purificata e che noi possiamo chiamare trasparente”[119]. Quando l’attore vuole usare la sua partitura come veicolo per provare l’esperienza della coscienza trasparente ripete tutte le sue azioni in modo attivo, ma dentro è come se riposasse, come se si addormentasse. Così il suo atteggiamento diventa passivo, ma nello stesso tempo vigile.

In questo momento egli comincia a capire che il centro della coscienza è sceso dalla testa da qualche parte vicino al petto. Coscienza-cuore[120].

L’esperienza dell’attore può funzionare con qualsiasi lavoro preciso e concreto, afferma Grotowski. Quando si arriva a farlo perfettamente, senza pensare, il corpo lavora da solo e la mente è libera per iniziare il suo percorso verso il cuore. E conclude:

Tramite il veicolo dello zikr [dhikr], come tramite il veicolo della filocalia o del mantra, si può arrivare a una perfetta fissazione dell’attenzione e che questa attenzione è allo stesso tempo vigilante, organica, centrata. Centrata, questo è importante: è. esattamente, questo spostamento dell’io verso il sé…[121].

Nel momento in cui l’io e il sé si riuniscono, si attua un cambiamento radicale nel corpo dell’attore. Quando l’integrazione delle energie psichiche e fisiche dell’attore si compie, egli è nel flusso ed il suo corpo non pone più alcuna resistenza, “possiamo dire che l’attore[122] è illuminato, c’è una sorta di trasluminazione del corpo”[123]. Anche se il concetto della luce appartiene a tutte le mistiche, i monaci esicasti insistono su di essa in modo particolare. L’apparizione di questo miracolo di luminosità fu spesso, se non ricercata, almeno attesa, come una prova dell’autenticità dell’esperienza:

“Colui che partecipa dell’energia divina diventa egli stesso, in qualche modo, luce. Egli è unito alla luce e, con la luce, vede in piena coscienza tutto ciò che rimane nascosto a quelli che non hanno questa grazia; egli sorpassa così non soltanto i sensi corporali, ma anche tutto ciò che può essere conosciuto con l’intelligenza…perché i puri di cuore vedono Dio…il quale, essendo luce, abita in essi e si rivela a coloro che lo amano”[124].

 

 

 

[1] Patrologia Graeca, 65, 88 C in AA.VV, Dizionario enciclopedico di spiritualità,  a cura di E. Ancilli, Roma, Città Nuova Editrice, 1990, p. 918.

[2] Plotino diceva “fuggire solo verso il Solo” (Plotino, Enneadi, VI, 9, 11). Per Plotino la filosofia inizia con una fuga, un allontanamento: “Bisogna fuggire da qui. Che cos’è questa fuga? Diventare simili a Dio” (Plotino, Enneadi,  III, 2, 1, 1-5).

[3] H. Laborit, uno dei grandi biologi contemporanei, nel suo Elogio alla fuga precisa che fuggire il mondo è necessario alla creatività; fuggire è uscire dai rapporti di forza “padrone-schiavo” che turbano “l’ipofisi e la ghiandola corticosurrenale”: “per rimanere normali non rimane altra scelta che quella di fuggire lontano dalle competizioni gerarchiche” (H. Laborit,  Elogio alla fuga,  Milano, Mondadori,  1990).

[4] C. Xanthopouli - I. Xanthopouli,  Metodo, 16G, FIL IV, p. 176, cit. in L. Rossi, I filosofi greci padri dell’esicasmo, Torino, Il leone verde, 2000, p. 327.

[5] S. Gregorio, L’esichia, 9, FIL III, cit. in L. Rossi, I filosofi greci padri dell’esicasmo,  cit., p. 591.

[6] E’ il termine usato da L. Flaszen nell’articolo Da mistero a mistero: alcune osservazioni in apertura, in L. Flaszen, C. Pollastrelli, R. Molinari, Il Teatr Laboratorium di Jerzy Grotowski 1959-1969, Pontedera, Fondazione Teatro di Pontedera, 2001.

[7] Cfr. C. Guglielmi, Le tecniche originarie dell’attore: lezioni di Jerzy Grotowski all’Università di Roma, “Biblioteca teatrale”, luglio–dicembre, nn. 55-56, 2000.

[8] Le tecniche delle fonti che interessano il gruppo di lavoro di Grotowski non sono del tipo statico come lo zen, ma sono soprattutto legate al movimento e all’azione. Tuttavia anche se l’esicasmo appartiene alla categoria della staticità, ci sono alcuni temi esicastici che a livello teorico spiegano in maniera approfondita il fare del performer grotowskiano.

[9] E. Barba, La terra di cenere e diamanti, Bologna, Il Mulino, 1998, p. 64.

[10]  L. Rossi, nel libro I filosofi greci padri dell’esicasmo, cit., persegue la teoria dell’esicasmo come continuum e sviluppo teologico della filosofia greca.

[11] Il persiano Jalâl ad–dîn Rûmî (1207-1273), fondatore della confraternita sufi dei “dervisci danzanti”, è uno dei più grandi poeti mistici d’ogni tempo.

[12] A. Rigo, Jalâl ad–dîn Rûmî e l’abate di S. Caritone, in “Östliches–Westliches. Studien zur vergleichenden Geistes–und Religionsgeschichte – Hommage an Cyrill J. C. von Korvin-Krasinski”, Heidelberg, 1995, pp. 173–194. e Antonio Rigo, Le origini delle tecniche psicofisiche d’orazione del Cristianesimo bizantino, in “Estética y religión. El discurso del cuerpo y los sentidos”, Barcelona, 1998, pp. 275–266. 

[13] S. Filoteo, Quaranta capitoli, 24, FIL II, pp. 408–409, in L. Rossi, I filosofi greci padri dell’esicasmo, cit., p. 514.

[14] E. Barba, La terra di cenere e diamanti, cit., p. 140.

[15] Termine induista che indica un eremo, un ritiro isolato.

[16] E. Barba, La terra di cenere e diamanti, cit., p. 168.

[17] J. Grotowski, Testo senza titolo, in AA.VV. Sull’attore. Grotowski Posdomani, “Teatro e storia”, n. 20/21, 1998-1999, p. 433.

[18] K. Stanislavskij, La mia vita nell’arte, Torino, Einaudi, p. 465.

[19] R. Schechner, Magnitudini della performance, Roma, Bulzoni, 1999, p. 244.

[20] R. D’Antiga, Dizionario di mistica, Libreria Editrice Vaticana, 1998, p. 460.

[21] P. Adnès, Hésychasme, Dictionnaire de Spiritualité VII (1969) 381-99; in M. Paparozzi, La spiritualità dell’oriente cristiano, Roma, Edizioni Studium, 1982, p. 10.

[22] L. Rossi, I filosofi greci padri dell’esicasmo, cit., p. 5.

[23] G. Janouch, Conversazioni con Kafka, Parma, Guanda, 1998, pp. 55–56.

[24] La formula nella sua versione integrale suona così: Kyrie Iesou Christé, Yie tou Theou, eleison me ton armatolon (Signore Gesù Cristo Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore).

[25] Il termine sanscrito mantra significa “strumento per il pensiero [meditativo]” o “strumento della mente”, e può essere un singolo suono, come Aum o Om, una breve frase o una parte di un testo sacro. Il mantra viene ripetuto costantemente per invocare protezione, benedizione o per raggiungere o mantenere uno stato di beatitudine. E’ usata nell’Induismo e nel Buddismo.

[26] Scalino 20: Sophronios, 104: Patrologia Graeca, 88, 945c; cit. in A. Rigo, La preghiera di Gesù, “Parola, Spirito e Vita”, n. 25, 1992, p. 257.

[27] Scalino 28, trad. in francese di J. Gouillard nella Petite Philocalie, p. 119; cit. in J. Meyendorf, S. Gregorio Palamas e la mistica ortodossa, Torino, Gribaudi, 1976, p. 21.

[28] E. Pontico, in T. Spidlík, La spiritualité de l’orient chrétien II: la prière, Roma, 1988, p. 192: tr. It. T. Spidlik, La spiritualità dell’oriente cristiano: Manuale sistematico, Edizioni San Paolo, Milano, 1995.

[29] G. Palamas, Triadi in difesa dei santi esicasti, in A. Rigo, a cura di, I padri esicasti. L’amore della quiete, Magnano, Edizioni Qiqajon, 1993, p. 129.

[30] Nous=intelletto, mente, spirito. Nel primo capitolo del suo Manuale (Symboyleyltikon Encheiridion) Nikodemo lo descrive come un macrocosmo situato all’interno del microcosmo, costituito dall’universo  materiale. Il battesimo e la contemplazione del creato e delle Scritture lo purificano e lo elevano. (L. Rossi, I filosofi greci padri dell’esicasmo, cit., p. 21). Il cuore è la sede del nous.

[31] G. Palamas, In difesa, FIL IV, p. 54; cit. in L. Rossi, I filosofi greci padri dell’esicasmo, cit., p. 225.

[32] P. Esichio, A Teodulo, 104, FIL I, p.250; cit. in L. Rossi, I filosofi greci padri dell’esicasmo, cit., p. 225.

[33] P. Esichio, A Teodulo, 104, FIL I, p.234; cit. in L. Rossi, I filosofi greci padri dell’esicasmo, cit., p. 225.

[34] S. Filoteo, Quaranta capitoli, 8, FIL II, p. 401; cit. in L Rossi, I filosofi greci padri dell’esicasmo, cit., 2000, p. 226.

[35] Sarebbe interessante qui esaminare un’altra forma di culto del cuore, cioè la venerazione del Sacro Cuore di Gesù. All’inizio degli anni venti, in relazione con il centro di Paray–le–Monial, Padre Anizan fondò la Revue Universelle du Sacré-Coeur, sottotitolo di Regnabit (1921-1929). A partire dal 1925 e sino al 1927, Regnabit si valse anche della collaborazione di René Guénon, esoterista di vaglia ed esperto di tradizioni orientali. Il cuore non è per Guénon il semplice centro dei sentimenti, ma il centro dell’intelligenza. E’ stata la mentalità moderna, da Cartesio in poi, che ha fatto del cervello lo strumento del pensiero discorsivo, riducendo così la cognizione alla sola ragione umana e negando, o ignorando, così l’intelletto puro e sovra-razionale. Di qui la distinzione tra il cuore “radiante”, raffigurante la luce dell’intelligenza e il cuore “fiammeggante”, rappresentante il calore dell’Amore. Per maggiori ragguagli su quest’argomento cfr. E. Montanari, capitoli Il simbolismo del cuore nella venerazione cristiana d’Oriente e d’Occidente e Eliade e Guénon in La fatica del cuore. Saggio sull’ascesi esicasta, Milano, Jaca Book, 2001.

[36] M. Paparozzi, Gregorio Palamas e la mistica dell’esicasmo; in AA. VV, Forme del mistico, Vicenza, La Locusta, 1988, p. 82.

[37] J. Meyendorff, S. Gregorio Palamas e la mistica ortodossa, Torino, Gribaudi, 1976, p. 10.

[38] M. Paparozzi, La spiritualità dell’oriente cristiano, Roma, Edizioni Studium, 1981, p. 13.

[39] I monaci erano cristiani che si ritiravano in luoghi appartati per condurre una vita di preghiera e di austerità. La parola “monaco” deriva dalla parola greca monacoV che deriva da monoV=“solo” e “unico”. Facendo riferimento all’etimologia della parola, Evagrio scrive: “Il monaco diventa pari agli angeli con la vera preghiera/Beato l’intelletto che al momento della preghiera diviene immateriale e nudo di tutto/Monaco è colui che è separato da tutti e unito a tutti/E’ monaco colui che si considera uno con tutti, per l’abitudine di vedersi in ciascuno” (Capitoli di Evagrio, “Revue d’ascétique et de mystique”, XV, 1934, pp. 34–93, 113–168: in J. Meyendorff, S. Gregorio Palamas e la mistica ortodossa, cit., p. 13) evidenziando così l’importanza della solitudine e della separazione per ottenere l’esichia. Il monaco diventa così un angelo, un’anima disincarnata. Originariamente l’uso della parola monaco era riservato all’eremita (quello che si ritira nel deserto per pregare in solitudine), ma dopo la situazione s’inverte e per monaco comincia a intendersi il cenobita, cioè l’asceta che vive insieme ad altri asceti, animati dallo stesso ideale di solitudine.

[40] “Sarebbe possibile definire Zolla un esicasta? Fu tale per la maniera in cui morì, nella condizione che aveva descritto in anticipo nei Mistici, respingendo ogni cura e misurandosi per ore, interamente lucido, con le contrazioni del muscolo del cuore e col respiro che gli mancava. Fu tale per il modo in cui visse, alla ricerca, sempre, di un’esychia della ragione…” (Si. Ronchey, Trattenendo il respiro fra cielo e terra, in “Il Sole-24 Ore”, 1 dicembre 2002).

[41]  E. Zolla, I mistici dell’Occidente, Adelphi, Milano, 1997.

[42] “Il cuore, infatti, è il signore e il re di tutto l’organismo corporeo, e allorquando la grazia si impadronisce dei pascoli del cuore, regna su tutte le membra e su tutti i pensieri; poiché là è l’intelligenza, là si trovano tutti i pensieri dell’anima ed è di là che essa si volge al bene” (Macario, Omelia XV, 20, Patrologia Graeca, vol. XXXIV, col. 589 AB; cit. in J. Meyendorff, S. Gregorio Palamas e la mistica ortodossa, cit., p. 18).

[43] Filocalia, vol II, a cura di G. Vannucci, Firenze, LEF, 1978, p. 16, in C. Lamparelli, Tecniche della meditazione cristiana, Milano, Mondadori, 1987, p. 187.

[44] Gesù disse: “Io sono venuto in questo mondo per fare un giudizio, affinché quelli che non vedono vedano, e quelli che vedono diventino ciechi”, Gv 9, 39.

[45] Con le scarne pagine della Teologia mistica Dionigi l’Aeropagita (secc. V–VI) ha scritto uno dei testi basilari di tutta la mistica cristiana. L’esperienza di Dio nel buio della fede. La conoscenza più piena, nella totale non-conoscenza, raggiunta attraverso le tappe della  via purgativa, della via illuminativa e della via unitiva (lo schema sarà universalmente accettato), sono l’itinerario che tanti mistici ripercorreranno.

[46] Igumeno, dal gr. hegemon=capo, amministratore; superiore del monastero ortodosso.

[47] Nepsis=vigilanza, attenzione, raccoglimento, sobrietà spirituali.

[48] A. Rigo, La preghiera di Gesù, cit., p. 259.

[49] E’ il testo apparentamente più antico dedicato alla tecnica psicofisica d’orazione, anche se storicamente non ne è stata accertata definitivamente la paternità.

[50] A. Bloom, Contemplation et ascèse, “Etudes Carmélitaines”, 1949, p.54; cit. in J. Meyendorff, S. Gregorio Palamas e la mistica ortodossa, cit., 1976, p. 34.

[51] Uno degli avvenimenti di maggior importanza nella storia del XIV secolo bizantino è la sua polemica con il calabrese Barlaam di Seminara dalla quale nasce la sua opera più famosa Triadi per la difesa dei santi esicasti (1338). E’ stato proprio Palamas che ha saputo, in quest’opera di qualche decennio prima della caduta di Bisanzio, integrare in una sintesi dottrinale la tradizione secolare del monachesimo contemplativo dell’Oriente cristiano. Barlaam polemizzava principalmente contro le tecniche psicofisiche della preghiera; attaccava la concezione esicasta della luce e in più chiamava i praticanti dell’esicasmo “onfalopsichici”, “cioè persone che hanno l’anima nell’ombelico”. La disputa finisce nel 1341 quando i concili di Santa Sofia diedero ragione a Palamas, alchè Barlaam tornò in Italia.

[52] G. Palamas, Triadi in difesa dei santi esicasti, in A. Rigo, I padri esicasti. L’amore della quiete, cit., pp. 126-127.

[53] Optino fu un antico eremitaggio del secolo XVI ed era quasi abbandonato quando il metropolita di Mosca, Platone, affascinato dal posto decise di ristabilirvi la vita monastica.

[54] L’ambiente e l’atmosfera di Optino sono minuziosamente descritti da Dostoievskij nei Fratelli Karamazov, in particolare nel personaggio di Alioscia Karamazov e nel personaggio di starec Zosima nel quale l’autore volle ricordare il celebre starec Ambrogio.

[55] “Il loro ruolo andava ben oltre quello dei comuni direttori spirituali; si sapevano depositari di un carisma particolare: quello di vedere in modo più diretto il destino concreto delle persone che venivano da loro e la volontà di Dio nei loro riguardi” (J. Meyendorff, S. Gregorio Palamas e la mistica ortodossa, cit., 1976, p. 90).

[56]  P. Evdokimov, Serafim di Sarov, uomo dello Spirito. Colloquio con Motovilov, Comunità di Bose, Edizioni Quiqajon, 1996.

[57] I famosi Racconti di un pellegrino russo (Anonimo russo, La via di un pellegrino, Milano, Adelphi, 1972) compaiono verso il 1860. L’autore dei racconti è anonimo, ma alcuni indizi rivelano che si potrebbe trattare di un contadino della provincia di Orel. Comunque sia, si tratta di una storia personale raccontata con le parole di un laico, che esprime con un linguaggio vivo e diretto l’incontro di un uomo semplice con la preghiera del cuore e l’importanza che ha avuto per lui il libro comprato per due rubli, cioè la Filocalia.

[58]  Nella seconda metà del XX secolo cominciarono ad apparire antologie della Filocalia in inglese, francese, italiano, romeno e spagnolo. Ware chiama la seconda metà del Novecento “Età della Filocalia”. La prima edizione italiana completa della Filocalia, a cura di Nicodimo Aghiorita e Macario di Corinto. Traduzione, introduzione e note di M. B. Artioli e M. F. Lovato della Comunità di Monteveglio, Torino, Gribaudi, 1982-87.

[59] Simeone, Metodo della santa preghiera e attenzione; in A. Rigo, I padri esicasti. cit., 1993, p.38.

[60] “E’ ciò che alcuni dei Padri hanno chiamato hesychia del cuore, altri attenzione, altri custodia del cuore, altri sobrietà e contraddizione, altri ancora esame dei pensieri e custodia della mente. Tutti all’unisono hanno lavorato la terra dei propri cuori e grazie ad essa hanno ottenuto di cibarsi della manna divina” (Simeone, Metodo della santa preghiera e attenzione; cit., p. 42).

[61] Giovanni Climaco, nel gradino 27 della Scala scrive: “Opera della hesychia è l’assenza di preoccupazioni (amerimnia) nei riguardi di tutte le cose, razionali e irrazionali” , cit. in J.–P. Migne, Patrologiae cursus completus. Series graeca, Paris, 1857.

[62] Simeone, Metodo della santa preghiera e attenzione, cit., p. 43.

[63] ibidem.

[64] ibidem.

[65] ibidem.

[66] N. Athonita, Trattato colmo di utilità sulla custodia del cuore; in A. Rigo, I padri esicasti. L’amore della quiete, cit., pp. 47-48.

[67] Si tratta di una raccolta di consigli patristici che l’autore presentò nel suo trattato volendo aiutare i neofiti a vincere l’instabilità del loro spirito.

[68] Queste righe non ci sono né nella Philokalia, né nella Patrologia graeca che la riprende, ma si ritrovano nel Vatic. Gr 710, Vatic. Gr. 730 e negli altri manoscritti (cfr. Méthode, 130); in A. Rigo, Le tecniche d’orazione esicastica e le  potenze dell’anima in alcuni testi ascetici bizantini, “Rivista di Studi Bizantini e Slavi”, n. 4, 1984, p. 90.

[69] Philokalia, IV, 27; in A. Rigo, Le tecniche d’orazione esicastica, cit., p.91.

[70] ibidem.

[71] ibidem.

[72] Catéchèses, t. 2, a cura di B. Krivochéine – J. Paramelle, Paris, 1964 (Sources Chrétiennes 104), n. 16, 86-91; cit. in A. Rigo, La preghiera di Gesù, cit., p. 263.

[73] G. Sinaita, Notizia esatta in 10 capitoli…; in A. Rigo, I padri esicasti, cit., p. 77.

[74] Un palmo corrisponde a venticinque centimetri.

[75] G. Sinaita, Sulla hesychia…; in A. Rigo, I padri esicasti, cit., p. 84.

[76] ivi, p. 85.

[77] Philokalia, IV, 71, cit. in A. Rigo, Le tecniche d’orazione esicastica, cit., p.93.

[78] ivi, pp. 93-94.

[79] Xanthopouloi, Metodo e canone esatto…; in A. Rigo, I padri esicasti, cit., p. 185.

[80] ivi, p. 184.

[81] Vorrei qui ricordare, per i punti in comune che ha con la preghiera esicasta, la terza maniera di pregare di Sant’Ignazio di Loyola: ”Il terzo modo di pregare è che ad ogni anelito o respiro si deve pregare mentalmente dicendo una parola del  Pater noster o di altra preghiera che si reciti, in maniera che soltanto una parola sia detta tra un anelito e l’altro, e intanto che duri l’intervallo fra un anelito e l’altro, si pensi principalmente al significato di tale parola, o alla persona cui la preghiera è diretta, o alla propria bassezza, o alla differenza fra una così grande altezza e questa bassezza nostra; e con la medesima forma e regola si procederà per le altre parole del Pater noster; e per le altre preghiere, vale a dire: Ave Maria, Anima Christi, Credo e Salve Regina , si farà come al solito” (I. de Loyola, Esercizi spirituali, Conoscenza religiosa, Milano, SE, 1998, p. 86).

Si consiglia I. Hausherr S. I. Les Exercises Spirituels de Saint Ignace et la méthode de Saint Ignace et la méthode d’orasion hésychastique, “Orientalia Christiana Periodica” n. XXII, , 1956.

[82] Philokalia, IV, 224; cit. in A. Rigo, Le tecniche d’orazione esicastica e le potenze dell’anima in alcuni testi ascetici Bizantini, in “Rivista di Studi Bizantini e Slavi” 4 (1984), p. 96.

[83] Anonimo russo, La via di un pellegrino, Milano, Adelphi, 1972, p. 146.

[84] J. – Y. Leloup, L’esicasmo. Che cos’è, come lo si vive, Milano, Gribaudi, 1992, p. 183.

[85] A. Rigo, Ancora sulla preghiera di Gesù nell’Esicasmo bizantino dei secoli XIII-XV, “Studi e Ricerche sull’Oriente Cristiano”, n. 10, 1987, p. 172.

[86] Onfaloscopia=fissare lo sguardo, concentrarsi sull’ombelico

[87] G. Palamas, Triade I, 2, 3; cit. in A. Rigo, L’epistola a Menas di Palamas e gli effetti dell’orazione, “Cristianesimo nella storia”, n. 9, 1988, p. 68.

[88] Gregorio Sinaita parla di “schizofrenia” e della scissione della memoria. Simili idee erano già espresse da Diadoco: “in seguito alla disubbidienza di Adamo, la memoria dell’uomo si trova scissa, come in un doppio pensiero” (Ouvres Spiritueles, ed. E. Des Places, Paris, 1966, 148, 17-18 [c.88]; cit. in A. Rigo, L’epistola a Menas di Palamas, p. 69.

[89] Philokalia, IV, 52; cit. in A. Rigo, L’epistola a Menas di Palamas, cit., p. 69.

[90] Xanthopouloi, Degli stessi nostri Padri; in A. Rigo, I padri esicasti, cit., pp. 204-206.

[91] M. Mauss, Le tecniche del corpo, in Teoria generale della magia e altri saggi, Torino, Einaudi, 1972, pp. 383-409.

[92] Per approfondire questo studio comparatistico si può consultare G. Vannucci, Lo Joga cristiano, Firenze, Libreria editrice fiorentina, 1978 e F. Poli, Yoga ed esicasmo, Bologna, EMI, 1981. Per quanto riguarda un confronto fra l’esicasmo e sufismo l’opera cardine è di G. C. Anawati - L. Gardet, Mistica islamica, Torino, SEI, 1960. E la più recente  E. Montanari, Esicasmo e sufismo in La fatica del cuore. Saggio sull’ascesi esicasta, Milano, Jaca Book, 2001.

[93] L. Gardet, Un problème de mistyque comparée; la mention du Nom divin–dhikr –dans la mystique mussulmane, “Revue Thomiste”, III, 1952, pp. 642-679; in J. Meyendorff, S. Gregorio Palamas e la mistica ortodossa, cit., p. 35.

[94] J. Meyendorff, S. Gregorio Palamas e la mistica ortodossa, cit., p. 35.

[95] In una lettera a Barba scrive: “Credo che le ricerche di quest’ultimo periodo (auto-esplorazione, anatomia psichica, psico-analisi del ‘non privato’), se sviluppate, possano aprire possibilità e prospettive inesauribili… E’ una conoscenza assolutamente concreta che si può studiare e verificare sul proprio organismo” (Terza lettera di Grotowski a Barba, in E. Barba, La terra di cenere e diamanti, cit., p. 147).

[96] C. Guglielmi, Le tecniche originarie dell’attore: lezioni di Jerzy Grotowski all’Università di Roma, “Biblioteca teatrale”, nn. 55-56, 2000, p. 15.

[97] G. Palamas, Triadi in difesa dei santi esicasti, in A. Rigo, I padri esicasti, cit., p. 132.

[98] Xanthopouloi, in A. Rigo, I padri esicasti, cit., p. 197.

[99] J. Grotowski, Esercizi, in L. Flaszen, C. Pollastrelli, R. Molinari, Il Teatr Laboratorium di Jerzy Grotowski 1959-1969,  cit., p. 198.

[100] Il termine usato da Grotowski per l’attore–performer, l’attuante, colui che fa, nella fase dell’arte come veicolo (J. Grotowski, Dalla compagnia teatrale a L’arte come veicolo, in T. Richards, Il lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche, Milano, Ubulibri, 1993).

[101] Il narcisismo, le emozioni…

[102] I fantasmi, le fantasie…

[103] C. Xanthopouli - I. Xanthopouli, Metodo, 25, FIL IV, p. 189, cit. in L. Rossi, I filosofi greci padri dell’esicasmo, cit., p. 245.

[104] G. Palamas, Triadi in difesa dei santi esicasti, in A. Rigo, cit., p. 133.

[105] F. Ruffini, La stanza vuota, in Sull’attore. Grotowski Posdomani, “Teatro e storia”, n. 20/21, 1998-1999, pp.455-485.

[106] Cfr. J. Grotowski, Per un teatro povero, Roma, Bulzoni, 1970

[107] F. Ruffini, La stanza vuota, cit., p. 459.

[108] Main Action è il nome di un’Azione, cioè di una precisa struttura performativa, creata a Irvine, tra l’ottobre 1985 e il giugno 1986.

[109] T. Richards, Il punto-limite della performance, Pontedera, Fondazione Pontedera Teatro, 1995, p. 37.

[110] G. Palamas, Triade in difesa dei santi esicasti, cit., p. 148.

[111] J. Chaikin, La presenza dell’attore, Torino, Einaudi, 1976, pp.48-49.

[112] Domenico Castaldo, laboratorio teatrale CIMES, DMS, Bologna, 5 maggio 2003.

[113] T. Richards, Il punto-limite della performance, cit., p. 15.

[114] L’azione interiore è un termine coniato da Thomas Richards per indicare il processo interiore di trasformazione di energia. Si tratta di una trasformazione da un’energia grossolana ad una sottile e viceversa. I canti vibratori sono uno strumento che aiutano l’organismo in tale processo.

[115] G. Palamas, Triade in difesa dei santi esicasti, cit., p. 130.

[116] J. Grotowski, Ciò che è stato, in L. Flaszen, C. Pollastrelli, R. Molinari, Il Teatr Laboratorium di Jerzy Grotowski 1959-1969, cit., p. 237.

[117] E. Barba, La terra di cenere e diamanti, cit., p. 157.

[118] F. Ruffini, La stanza vuota, cit., p. 474.

[119] L. Tinti, a cura di, Grotowski Jerzy. Tecniche originarie dell’attore, dattiloscritto, p. 203.

[120] ivi, pp. 88–89.

[121] ivi, p. 138.

[122] Principe Costante – Cieslak è stato spesso descritto con le metafore della luce: “una specie di luce psichica”, “un’illuminazione dall’interno”, “una luce letteralmente imponderabile”, “uno stato di grazia” (J. Kelera, Monologhi di Ryszard Cieslak nella parte del Principe costante: verso l’apoteosi, “Odra”, n. XI, 1965, in J. Grotowski, Per un teatro povero, cit., p. 127), “il corpo sembra trasparente” (F. Taviani, Cieslak promemoria, “Teatro e storia”, n. 10, 1991, p. 194).

[123] Intervista di M. Ahrne a Grotowski, in AA.VV. Sull’attore. Grotowski Posdomani, cit., p. 432.

[124] G. Palamas, Omelia sulla presentazione della Santa Vergine al Tempio, 175-177, cit. in J. – Y. Leloup, L’esicasmo, cit., p. 172.

Da "Culture teatrali", a cura di Marco De Marinis, Bologna, 2003

 

 
   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Concrete utopie
A proposito di “The White Diamond”
Di Werner Herzog
Dialogo tra Sandro Sproccati e Nazario Zambaldi

 

Titolo originale: The White Diamond
Produzione: Gran Bretagna, Germania 2004
Genere: Documentario
Durata: 88 minuti


“La partenza fu lieta d’ardite speranze; e l’aerostato si sollevò rapidamente dai bassi strati dell’atmosfera. “Vedete come noi saliamo per la sola volontà dell’assoluto” esclamava Platone ai suoi discepoli che erano con lui, e accennava al globo scintillante che li trascinava nella sua rapida salita”.
[Carlo Michelstaedter, La persuasione e la retorica, Adelphi, Milano 1995, p.67]

Realtà e finzione
N.
La “fictio”, fiction con cui spesso si … finge di distinguere un genere, ci chiama più evidentemente a qualche considerazione sul rapporto tra realtà e arte in genere, cinema in particolare. Fatta la premessa doverosa che per Herzog non si fa questione tra “film” o “documentario” che pure dovrebbe individuare il Diamante Bianco, superflua diviene pure l’osservazione su eventuali naturalismi, tanto che si intenda la rappresentazione di stati d’animo e parole attuali degli attanti non-attori evidentemente istruiti dal regista, come la ripresa della natura “così com’è”, ove essa debba per necessità essere filtrata da un immaginario e da un bagaglio estetico che non può che definire la cifra stilistica herzoghiana.
S.
L’estremismo cinematografico di Herzog muove esattamente da tale presupposto, che ciò che nel film si rappresenta – si narra, si dice, si mostra, si osserva – debba essere assolutamente e comunque vero, anche quando per paradosso fosse totalmente inventato (e cioè, letteralmente, “trovato”) dal regista. In questo senso Kinski è davvero e fino in fondo Aguirre e, poi, piú tardi, è davvero e fino in fondo Fitzcarraldo o Cobra Verde. Cosí come Aguirre, Fitzcarraldo e Cobra Verde sono autenticamente ciò che sono, dentro ma anche fuori della “finzione cinematografica”, dal momento che tale “finzione” si pone, in Herzog, come un ulteriore declinarsi della realtà, come un farsi della realtà che non fa altro che realizzare ciò che la realtà è in potenza, ossia pensiero che si materializza dando luogo effettivo (giacché pensato) al mondo. Se esiste certamente un “cinema come menzogna” – e sarebbe qui intollerabile pedanteria elencarne i molti esponenti – va da sé che per Herzog il cinema potrà essere sempre e soltanto “verità”. E come dargli torto, del resto, una volta che si sia ammesso che alla verità (alla realtà) è dato di sussistere non già come dimensione astrattamente separata da una mente che le pensa, ma proprio e sempre e soltanto quale effetto di una persuasione soggettiva, di una fede che sprofonda in essa, di un processo di identificazione, in buona sostanza, il quale – guarda poi il caso! – è esattamente una delle strutture fondative del testo cinematografico e della ricezione del medesimo? Documentario e finzione sono per Herzog i due volti di un solo e unico processo di (ri)fondazione del reale: il film, come opera d’arte, come testo creativo, agisce sul confine tra le due “possibilità”, la finzione e il documentario, incide e segue il loro limite, la loro sottile cesura, per dimostrarne l’inconsistenza, forse la convenzionalità, oppure semplicemente per far ricongiungere assiduamente il reale con l’immaginario: per rendere il sogno un’autentica vita vissuta e per far superare al reale ogni soglia che gli è propria, che gli è imposta. L’utopia cinematografica di Herzog è di poter rendere “concreta” l’utopia medesima: sí che i suoi films – utopici per elezione e per definizione – sono sempre contemporaneamente rappresentazione amorosa dell’utopia e inseguimento di un’utopia ulteriore, la quale insiste sul fatto che in essi accade ciò che il nostro comune (ma non per questo meno frustrante) concetto dell’accadimento nega che possa accadere.
N.
“L’immagine non è questo o quel significato espresso dal regista, bensì un mondo intero che si riflette in una goccia d’acqua” (A. Tarkovskij, Luce istantanea, Milano 2002, p. 12); Herzog si fa accompagnare dal medicine man Mark Anthony nella foresta; la terra, la nebbia, le erbe mediche “che fanno bene agli occhi”; poi Mark Anthony dice di guardare attraverso una goccia d’acqua le cascate Kaieteur alte quattro volte quelle del Niagara: H.: “Mark Anthony tu vedi l’intero universo in questa singola goccia d’acqua?” M.: “Non ho sentito che ha detto. C’è il rombo della cascata”.
S.
L’immagine della realtà è per Herzog sempre e prima di ogni altra cosa immagine. L’universo intero è visibile solo attraverso la “goccia d’acqua” dell’immagine, poiché è l’immagine (mentale) del mondo che dà vita al mondo stesso. Ma qui occorrere aggiungere tuttavia che tale “mondo”, di cui parla Herzog, non è quello stesso mondo a cui veniamo ridotti a pensare dalle strutture culturali che ci dominano... L’esperienza cosí detta diurna, o pragmatica, o quotidiana del mondo risulta in effetti del tutto deviante e deviata. Presso Herzog, l’immagine è il luogo in cui il desiderio esplica la propria potenza creatrice e fa di ogni esercizio fattivo un’esperienza-limite, pertanto una gemma preziosa di vita autentica da estrarre dal fango ignominioso della “falsa esistenza” in cui – privati dell’immagine – rischieremmo di essere dannati a non-vivere. Non vi è vita autentica, non vi è “vissuto” che valga la pena di essere tale (la pena di viverlo) se non al di fuori di quelle prigioni esistenziali, di quell’avvilimento totale della vita, a cui la nostra schiavitù (e il “pensiero dominante” che la determina) in ogni istante ci costringe... Il cinema, dando all’immagine del desiderio – prodotta dal desiderio – motivo e pretesto di avverarsi, diviene cosí la via di scampo e la chance da cogliere: per questo il cinema non è mai “finzione”, e ancor meno è “intrattenimento” o “consolazione”. Il cinema chiede a chi lo fa (e impone a chi lo fruisce) di raggiungere l’altra sponda, di entrare nella dimensione separata che la pochezza mentale e la malafede ideologica chiamano “delirio”, ma che è piú semplicemente la dimensione del desiderio.

Realtà e utopia
N.
Il rapporto tra realtà e sogno, tra materiale e spirituale, fisico e metafisico, è certo un incrocio che in Herzog descrive come ossimoro il tentativo, o meglio la determinazione, di un uomo, l’intenzione dell’artista, di costringere, meglio ricondurre, la realtà alla volontà. Non possiamo limitare questo titanismo a un orizzonte estetico, bensì definirlo etico nel senso a-morale dell’arte, quando autentica (al di là del bene e del male in quanto al di là della realtà); se quindi di Herzog conosciamo l’ostinazione nella realizzazione dell’idea attraverso le pellicole più universalmente note, proprio delle riprese di queste si ricordano difficoltà al limite dell’umano fisico e psichico, tanto con attori che con non attori coinvolti nelle imprese filmiche dal regista. In questo senso si sconta l’impossibile conciliazione di ordine reale e ideale, se non come tensione, talvolta dolorosa, nel senso di “folle”: se poniamo, a titolo d’impertinenza, Pasolini in un ordine di realismo che si sublima de-realizzandosi, e Tarkovskij all’opposto in un sublime che in qualche modo si realizza nell’onirismo cinematografico, ci pare di scorgere nel mezzo, “liminale”, un’impossibilità di risoluzione per Herzog, che ce lo rende proprio in questa sua particolare deterritorializzazione particolarmente caro. Sull’altro piatto della bilancia si deve riconoscere che l’impronta di Herzog emerge in un’intensità e in una grandezza che vanno al di là dei mezzi delle produzioni cinematografiche e del linguaggio, definendo uno sguardo che modifica di per sé la realtà; e ciò avviene dal racconto per immagini del saltatore con gli sci, fino all’ingegnere che progetta dirigibili o al naturista che vive con gli orsi … Si citi solo a titolo esemplificativo un momento apparentemente marginale in White Diamond ma che rivela la potenza inventiva fino al paradosso, la sequenza della danza del ragazzo sullo sfondo della cascata, ove l’immobilità della cinepresa potenzia l’immagine-movimento, scorrimento eracliteo della cascata sulfurea in secondo piano, danza che gioca con la retrogradatio della break-dance in primo piano.
S.
All’iperbole e alla dismisura del narratum non corrisponde mai in Herzog un impiego iperbolico delle tecniche di ripresa: la “camera” viene anzi accuratamente nascosta, il che non comporta – ovviamente – un onere minore e una minor intelligenza linguistica. Metafore direttamente suggerite dai movimenti di macchina, come ad esempio accade con pirotecnica frequenza ed esiti talora strabilianti nel cinema di Fassbinder, sono per principio escluse: nelle opere di Herzog è l’oggetto stesso della visione – freddamente e con superba fiducia lasciato alla propria mirifica e quasi barocca bellezza – a risultare inesauribilmente alieno alla nostra comune percezione del mondo. Animali e altri esseri della giungla di comune nozione biologica si ergono in The White Diamond a mostri imprevisti di allucinogena complessità grazie a semplici riprese con macro-obbiettivo; effetti di rispecchiamento e di rifrazione luminosa trasformano il fiume e la cascata in miracoli soprannaturali; gli uomini stessi, grazie alla “fedeltà” con cui vengono indagati dal cine-occhio, assumono aspetti di pazzia che li rendono tanto piú veri quanto piú inconsueti. Realtà e utopia istituiscono tra loro rimandi continui: l’utopia ha infatti senso solo quando configura un luogo che è sí assente, ma che è anche per definizione (ipoteticamente) raggiungibile. Il luogo dell’utopia non è un luogo – o è un non-luogo – solo fin tanto che la spinta verso di esso non si fa cosí esuberante da materializzarlo quale “meta” verso cui dirigersi... vale a dire spingendo nella sua direzione ogni possibile e auspicabile avanzamento del limite. L’utopia è l’unica possibilità che ancora è data all’uomo occidentale (e dunque all’uomo tout court) contemporaneo. Tale è l’esperienza di cui l’avanguardia artistica e culturale del XX secolo ci ha reso nell’intimo partecipi, facendo di noi, se siamo minimamente sensibili al suo progetto di salvezza, degli utopisti ad oltranza. Vi è, nel film, un non-luogo per eccellenza: ed è la caverna, imprendibile dietro la cascata, in cui nidificano i rondoni. Ma la scoperta che i rondoni vi nidificano, recandovisi in picchiata, ne rende materiale l’esistenza e appetibile il raggiungimento. Il diamante bianco, il pallone ultraleggero e quanto mai efficace che – anche a pena di sconfitte sempre in agguato e di morti incombenti – è stato allestito per “volare presso la cascata”, esiste in realtà per quell’inconfessabile scopo, entrare nella caverna dei rondoni. Pur con tutte le cautele che il progetto utopico richiede, la finalità ultima è continuamente evocata: Mark Anthony, fumando disteso sull’amaca, guarda in modo trasognato il diamante bianco e ne ammira, con una persuasione quasi commovente, la meravigliosa improduttività; che tuttavia è tale solo per la doppia e contraddittoria prospettiva che sempre implica il concetto di utopia; la voce fuori campo di Herzog ci avverte, en passant e come per un lapsus, che vi è uno scopo nell’impresa, e noi capiamo che si tratta di uno scopo sottaciuto giacché folle, da subito e a piú riprese indicato (semmai) come onirico: penetrare nel luogo interdetto, vincere l’ostacolo insormontabile dell’immensa cascata, rinvenire l’origine stessa del desiderio e ricongiungersi con tale origine, nell’utopia che il desiderio ha generato ma che inizia ad essere utopia solo dal momento in cui si è fatta “concreta”, ovvero da quando il medico della spedizione si è calato con la fune fino all’imbocco della caverna e ne ha tratto – a mezzo della cinepresa – immagini le quali, ciò nonostante, devono restare segrete e che il film, infatti, non ci permetterà di vedere.

Il volo
N.
Si dà possibilità di un superamento, sorta di Aufhebung che sia sintesi e pacificazione tra al di qua e al di là? Il volo dell’uomo, dopo aver spiccato un salto con gli sci o trasportato da un dirigibile ultraleggero è o non è il volo degli uccelli che disegna la cascata sullo sfondo in cui l’acqua sembra fuoco; e il dirigibile bianco riflesso nell’acqua del fiume diviene o no pesce? Pare che Herzog rinunci a forzature della realtà per acquisire una differente distanza, forse una pacificata contemplazione dei limiti del senso, dell’ignoto; in White Diamond rappresenta egli stesso il superamento plausibile di un trauma, blocco significato per l’ingegnere inglese Durrington dal “volo” e dalla morte conseguente dell’amico regista di cui è spettatore partecipe. Herzog quindi a cucire (aprendo) la ferita, quasi custode se non di un realismo di un “buon senso”, quello per cui in alcune considerazioni a margine, dal tono enfaticamente didascalico, pare riconoscere non nell’oggetto del sogno ma nella tensione che crea la “macchina” ciò che và rappresentato. Impossibilità di una profondità. Impossibilità di una sintesi. Ma forse non è questo che fa problema. La cinepresa è chiamata a presentare o rappresentare il problema, a costo di crearlo, in quanto vitalità-virtualità rizomatica, fantasma. La caduta del regista Dieter Plage, le cadute dei pionieri del volo, il “sogno pericoloso” di sorvolare la cascata con il dirigibile, imponente sullo sfondo naturale, accarezzata dal disegno del volo degli uccelli, e dietro la cascata il mito senza immagine. L’immagine del diamante bianco riflessa nell’acqua, il suo divenire-pesce, la superficie che lo specchia, sorta di pellicola, e ne offre l’immagine retinica, allude a una profondità che non si dà, galleggiamento silenzioso, in superficie, contemplazione iconica, finestra sull’ignoto. Le immagini girate dal medico al seguito, che si cala nell’abisso in quanto esperto arrampicatore, non vengono mostrate. Riprendono la caverna dietro la cascata ove i rondoni vanno a nidificare. Il leader di una tribù della zona racconta di leggende legate a quel luogo inesplorato e che deve rimanere invisibile. Herzog però racconta la storia che dà nome alla cascata; al tempo dei conquistatori l’eroe indigeno Kaie si lancia con la canoa sul fiume precipitando seguito dai conquistatori: “Kaie teur”, la caduta di Kaie.
S.
Il volo è descritto da Herzog, in incipit della pellicola, come il piú grande sogno utopico che da sempre l’umanità coltiva. Il rischio, a mio avviso, è il fraintendimento. Perché è fin troppo facile confondere le cause con gli effetti e stabilire che nell’alto dei cieli a cui il volo si vota è l’immagine di dio a cui l’uomo tende. Il volo, in verità, il desiderio del volo, ossia il volo come desiderio, sono nient’altro che la risposta a una tensione tutta umana dell’uomo verso l’uomo. Umano, troppo umano. L’utopia non è dell’ordine del divino e della religione, essa appartiene all’uomo come il nucleo della sua piú antica, e però tradita, vocazione. Ciò che ha distinto l’uomo, nella propria comparsa (senza dubbio sciagurata) sul pianeta in cui vive, è esattamente l’atto di un protendersi verso l’alto: il corpo che si leva. Le zampe anteriori (finalmente?) superflue che si trasformano in braccia e producono mani, e che con le mani iniziano a trasformare la realtà, costruendo utensili e spostando oggetti. La testa che, eretta e alta, inizia a scrutare l’orizzonte per dipingervi il proprio prospettico schema di dominio. In questo straordinario levarsi del corpo è tutto l’uomo e la sua fortunata o penosa anomalia. Dio non c’entra. L’alto è all’uomo prediletto fino al punto che tutto in lui tende all’alto e il basso gli ripugna. Altissime ambizioni di superare i bassi istinti: per protendere il capo, il cervello, verso la posizione dominante della “veduta dall’alto”. Tale è il volo di cui, in tutte le sue opere cinematografiche, piú o meno metaforicamente o letteralmente, ma sempre dialetticamente tentando di comprenderne il senso, Herzog ci parla.

“Quando giunsero ai limiti dell’atmosfera però l’aerostato diminuì la sua velocità, ondeggiò e si fermò del tutto, equilibrato nel mare d’aria. Fuori dell’atmosfera non si va – bisognerà accontentarsi di galleggiare. E le speranze? E il sole? E l’indipendenza? I discepoli guardarono il maestro con muta richiesta -”
[Carlo Michelstaedter, La persuasione e la retorica, Adelphi, Milano 1995, p.67]

Da "Carte di Cinema", n. 20, Bologna, febbraio 2007

 

 
   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Luci della sera

 

di Nazario Zambaldi

 

Esistono a Pietroburgo, Nasten’ka, alcuni strani angolini, anche se voi non li conoscete. In quei posti sembra che non arrivi quel sole che brilla per tutti gli abitanti di Pietroburgo, ma un altro sole, quasi ordinato appositamente per quegli angolini, e risplende di una luce diversa, particolare. In quegli angolini, cara Nasten’ka, sembra svolgersi una vita diversa, che non somiglia affatto a quella che ribolle intorno a noi, una vita come potrebbe svolgersi nel trentesimo regno di fiaba e non da noi, nella nostra epoca così seria e così dura. Ecco questa vita è un miscuglio di elementi puramente fantastici, ardentemente ideali e, ahimè, Nasten’ka, di elementi banalmente prosaici e abitudinari, per non dire inverosimilmente volgari.

Fedor Dostoevskij, Le notti bianche

(Dalle memorie di un sognatore), Seconda Notte

 

“Le luci ai margini della città”, come suonerebbe una traduzione più prossima all’originale, pone sin dal titolo una questione di “margini”. La marginalità cui si rivolge Kaurismaki è anche una liminalità che definisce il suo campo di azione, tra il giorno e la notte, tra la città ricca di cose e chi sta fuori. Koistinen, la guardia notturna, pare l’impotente custode di questo limite: guardiano, guarda appunto, sorveglia l’ordine economico della città, tiene senza possedere le chiavi dei negozi che apre e richiude nel suo giro notturno, viaggio circolare, flanèrie eternamente uguale a se stessa. A differenza dei suoi parenti prossimi in Ho affittato un killer (1990) e L’uomo senza passato (2002) il protagonista di Le luci della sera sembra inchiodato alla sua condizione, fedele al suo ruolo contemplativo, erede di una natura preindustriale, incapace di rapide mutazioni identitarie, spettatore di una vita che è e non è sua, schiacciato dalla violenza o dall’istituzione (o dalla violenza dell’istituzione) quando risponde alla sua natura di cavaliere, San Giorgio o Don Chisciotte nella difesa del debole (il cane) o nel rispettare il suo codice (la guardia). Il film più recente di Aki Kaurismaki ripresenta su vari livelli elementi che ne costituiscono la cifra stilistica, assumendo ancora punti di vista lievemente differenti che bastano a farne opera profondamente originale.
               
Kaurismaki - Koistinen

Il testo che ora si tenta di costruire è scrittura sui margini, o cornici o, dato il contesto, – tra – inquadrature. La provocazione che muove questa scrittura è un’apparentamento tra l’azione - inazione di Koistinen e quella di Bartleby, il protagonista dell’enigmatico racconto di Melville: Bartleby. The scrivener of Wall Street. Partendo da questa associazione che li accomuna in un singolare eroismo, ho voluto coinvolgere lo stesso Kaurismaki, enfatizzando la marginalità come luogo residuale di umanità:

«No, there is no connection what so ever. Between Bartleby and Koistinen. There are lot of unhuman people on the margins, too. Yes, it's easier to be human in the margin. In the center you are too centered. And you easily get centre-minded there». (Non c'e nessuna connessione tra Bartleby e Koistinen. Ci sono molte persone disumane anche nei margini della società. Certo è più facile essere umani nei margini. Nel centro si è troppo centrati. Nel centro è più facile diventare center-minded, avere una mentalità centrata).

Segue breve silenzio.

«You said that I can answer what I want». (Mi hai detto che posso rispondere come voglio).

Segue un silenzio più lungo.

«Of course, there is a certain connection, because there is a certain connection between everything. But, when I made this character Koistinen, I didn't really think about Bartleby. I could have, but I didn't». (Certo, c'è una certa connessione, perché c'è una certa connessione tra tutte le cose. Ma, quando ho creato il personaggio di Koistinen, non ho veramente pensato a Bartleby. Avrei potuto farlo, ma non l'ho fatto).

Liberati quindi dalle parole, dal significato, con questa bartlebyana risposta non risposta, cerchiamo l’affiorare del significante, in questa scrittura da usare come velo che svela, di cui liberarsi, coerentemente con l’onirismo del lavoro kaurismakiano, affezionato seguace tra gli altri di Buñuel, e che dichiara nel lungo dialogo con Peter von Bagh : «La mia idea della scrittura di una sceneggiatura è la seguente: una volta trovata l’idea, smetto di pensarci per i tre mesi successivi, mi impedisco di farlo. Il mio inconscio nel frattempo lavora sodo. […] La scrittura si srotola circa in venti o trenta ore, ma è stata preceduta da un lungo processo di maturazione inconscia” .

Koistinen - Bartleby

Ancor più di Koistinen, Henry Boulanger, protagonista di Ho affittato un killer ricorda fin dalle prime inquadrature Bartleby; Bartleby come Boulanger scrive, o meglio tra-scrive. Il francese, lo straniero Boulanger è in realtà un senza patria, un deterritorializzato, non si trova in Francia, come egli stesso dichiara, perché indesiderato. Bartleby, come ci racconta Melville alla fine del racconto, era precedentemente un impiegato subalterno nell’ufficio delle lettere smarrite (“lettere morte” le chiama Melville) a Washington, da dove era stato licenziato per un cambio di amministrazione. L’inquadratura su una macchina da scrivere sembra anticipare l’analoga sorte di Boulanger. Anche la finestra cieca di casa Boulanger, che dà su un muro di mattoni, ricorda inequivocabilmente quella nello studio dell’avvocato ove in segreto Bartleby abita; ma non vogliamo percorrere la strada seriale delle analogie, in cui la questione autoriale tra scrittura e ri-scrittura si può risolvere con le parole di Kaurismaki: «per parlare in maniera didattica, le citazioni pittoriche sono per definizione visive, mentre quelle cinematografiche sono comportamentali. Di fatto esiste soltanto una ventina di film veri, tutti gli altri sono ripetizioni» . Ma cosa c’è in Bartleby e in Koistinen che li accomuna?
Deleuze parlando della balbuzie di Billy Budd in Melville scrive: «anche Bartleby è una natura angelica, adamitica», ma «egli non dispone di un Procedimento generale, foss’anche la balbuzie, con cui trattare la lingua. Si accontenta di una breve formula, corretta in apparenza, al più un tic localizzato che affiora in certe circostanze. E nondimeno il risultato, l’effetto sono gli stessi: scavare nella lingua una specie di lingua straniera, e costringere il linguaggio a far fronte al silenzio, farlo precipitare nel silenzio. Bartleby annuncia il lungo silenzio in cui entrerà Melville» . L’esistenza liminale, sulla soglia di Koistinen lo avvicina più di altri personaggi di Kaurismaki a Bartleby, una rassegnazione malinconica che è solo appena attenuata dall’amore di Aila. Se per Bartleby la prigione è la fine, per l’uomo senza passato il principio di una vita differente, per Koistinen è una iniziazione mancata, passaggio per vedersi riconfermato nella propria esistenza. Aila lo incontra per strada una volta scontata la pena: «Com’era la prigione?» gli chiede; «Non era possibile uscire. Tutte le porte erano chiuse a chiave». Von Bagh, tra le figure cristologiche che il cinema può offrire quale paragone, cita in particolare Nazarin di Bunuel . Koistinen non si difende perché non può comunicare, è propriamente di un altro mondo; il silenzio di cui il cinema di Kaurismaki si sostanzia in Koistinen diviene messaggio muto, incomunicabilità involontaria e inevitabile, trasversale resistenza o insistenza come la frase ripetuta di Bartleby: «I prefere not to».

Attore - soggetto

«La cosa più naturale, per me, è un personaggio davanti a un muro. O, meglio ancora, soltanto un muro» . Nella “strada del muro”, Wall Street, Bartleby si affaccia alle finestre che danno su muri. Impossibilità di uscita. Forse la finzione. O la follia. Il sogno. Il cinema. Allargando l’inquadratura possiamo cogliere il giovane Kaurismaki, attore in Il bugiardo. Poi, con un lieve cambio, Jean-Pierre Leaud: gioco di specchi? «Il mio stile come attore, se lo vogliamo chiamare così, imitava in maniera netta, ma spontanea, quello di Jean-Pierre Leaud. Quando l’ho diretto dieci anni più tardi in Ho affittato un killer Leaud era molto nervoso, all’inizio, perché erano quindici anni che non aveva un ruolo da protagonista. Allora ho cominciato a recitare davanti a lui imitando il suo stile di un tempo. E lui, imitando me, paradossalmente, è ridiventato sé stesso» . La non-recitazione dei personaggi di Kaurismaki ci introduce immediatamente a un nodo che non è mia intenzione sciogliere qui, volendo al contrario evidenziarne la rilevanza. La messa in scena della realtà, il cinema di Pasolini, il cosiddetto teatro post-drammatico, il rapporto in arte tra performatività e recitazione, può in questa sede almeno entrare in gioco come spunto per approfondimenti a partire da una suggestione che non può che restare generica (mai interessati a eccessi semiologici). La questione è la seguente: la crisi dell’attore come caso particolare della generale crisi del soggetto, ove per crisi non si intende nulla di storicamente determinato, bensì la criticità insita nell’esistenza. Pier Aldo Rovatti, riferendosi a Freud che afferma che l’Io non è più padrone a casa propria, immagina il soggetto della società di mercato come «il soggetto egoista, il soggetto che è padrone a casa propria» . Rovatti ricorda poi il racconto di Kafka La tana, in cui uno strano animale si barrica in casa sempre di più. «L’animale kafkiano è preoccupato soprattutto dell’uscita. Riusciamo a pensare una casa senza un’uscita? Diventeremmo pazzi se avessimo una casa senza un’uscita». E se quella casa è la vita? Vita del soggetto, proiezione temporale. Kaurismaki percorre un’itinerario di de-sogettivazione ritmato da sigarette e alcool; questo gli permette di liberarsi talvolta del giudizio del soggetto come di un dio minore, di finirla con “le jugement de dieu”, come lo chiamava Artaud. In questa de-organizzazione, l’individuazione funzionale del regista emerge in momenti d’intensità la cui rapidità artigianale è condizione necessaria per un cinema tendenzialmente liberato da psicologismi.  

La pace della sera

Il saper esitare di Kaurismaki lo pone in una liminalità, sulla soglia, in una a-temporalità propria del sogno e del sacro (ad ascoltar lui inconsapevolmente), nella condizione dell’esitazione, in quel balbettio che è il gioco con il tempo e con il senso (a lungo preparato con letture e visioni che hanno nutrito un “sé”). Nella lezione del seminario 1955-56 dedicato a Le psicosi e al caso freudiano del presidente Schreber, Lacan si ferma a descrivere e meditare una frase che gli salta in mente: la pace della sera. Rovatti a proposito di tale “piccolo lampo” non tanto dissimile dalle supposte allucinazioni verbali del presidente Schreber, riferisce le insistite argomentazioni di Lacan tese quasi a voler esprimere qualcosa di molto difficile da dire, qualcosa che riguarda l’essere e il linguaggio. Seguendo Lacan: «non penso che chiunque abbia una vita affettiva normale non sappia che c’è qui qualcosa che esiste, e che ha un valore del tutto diverso dall’apprensione fenomenica del declino dei bagliori del giorno, dell’attenuazione delle linee e delle passioni. In la pace della sera c’è a un tempo una presenza, e una scelta nell’insieme di ciò che vi circonda». Il filosofo Severino si trova in un’ambiguità simile con l’espressione la notte che viene, in cui “la notte che viene” (la parola) indica la notte che viene, un significato. Ma infine la notte (o la sera) giunge, e quindi: la cosa si dà? In modi differenti per Lacan e Severino si tratta di sospendere “i sensi” con cui soggettivamente (psicologicamente) apprendiamo la sera o la notte che giunge, per poter arrivare nei pressi delle parole stesse attraverso uno spegnimento della volontà interpretante. Forse che, per utilizzare le parole di Severino, Kaurismaki si «fa avvolgere dal linguaggio abbandonando la volontà interpretante»? Lacan però và oltre e sottolinea come avvengano cose differenti se la pace della sera arriva “da dentro” o “da fuori”, ovvero come significato o significante. A tal proposito, agisce l’effetto sorpresa, un po’ come narra Freud nel noto episodio del viaggio in treno nel corso del quale non riconosce la propria immagine riflessa in uno specchio improvvisamente aperto, e vi scorge un ospite indesiderato. Del resto anche nel Witz, nel motto di spirito, nel gioco di parole divertente, l’inaspettato ha l’effetto di far uscir fuori. Il riso che lo accompagna, se in generale non appare come forma di esorcismo, ovvero per quel che è nella vita quotidiana, cioè riconquista del soggetto e di una coscienza vigile e padrona di sé, nella paradossalità umorisitica dell’immaginario kaurismakiano tale intimo legame con la fine, la scomparsa, la morte, non è mai troppo velato. 

Lo sguardo, la parola

A proposito dell’insorgere nell’industria cinematografica del digitale, Kaurismaki difende l’arte, ovvero le tecnologie di ripresa e montaggio tradizionali: «I nostri ricordi sono intimamente legati alla luce nella quale gli eventi si producono. La luce precede il fatto stesso» . Kaurismaki, attentissimo costruttore di immagini, lavora “togliendo”, rincorrendo la trasparenza del linguaggio, non solo sul piano della retorica narrativa dei testi, o dei corpi “recitanti”, ma alla ricerca dell’evento, ricerca consapevole nella misura in cui l’arte si muove sul piano intuitivo, del significante, di chi non cerca… (e) trova! «Bartleby stesso non aveva altra via di uscita che tacere e ritirarsi dopo aver pronunciato ogni volta la formula, dietro il suo paravento, fino al silenzio finale della prigione» . Nel silenzio lo sguardo, il volto. Il cinema può non parlare; le parole per lo più non sono significative. Il significante può emergere ovunque proprio nella misura in cui si lascia silenzio e vuoto. Il livello simbolico, soggettivo, linguistico và abilmente contenuto, fatto esitare, sulla soglia; l’affacciarsi sullo schermo come finestra deve quanto più insistentemente essere ripetuto, reso quasi continuo, insistente, com-movente, genesi continua, come nel primo cinema, muto. Anche la recitazione è narrazione. Retorica. Organizzazione. Ostacola. Il volto. Lo sguardo. Di Koistinen sui suoi aguzzini, di fronte alla cinepresa, al bar; del killer fuori dal bar, di spalle, che guarda dalla vetrina Boulanger e Margaret con la stessa geometria ma differente punto di vista… In quel caso il titolo originale era I Hired a Contract Killer e Kaurismaki dichiara che il progetto del film prese corpo quando gli trovò un titolo inglese, I Hired a Contact Killer, con equivoco tra contact e contract. Al di là dello slittamento, pure significativo, ci pare di sottolineare l’“I” che scompare nella traduzione italiana, e scompare anche nella formula di Bartleby «I prefere not to»: «preferirei di no».“I”, “io”. La formula della creazione, come la chiama Deleuze: il tentativo negativo, “a togliere” come l’abbiamo chiamato – «quale soffio psicotico spira allora nel linguaggio? È proprio della psicosi far entrare in gioco un procedimento, che consiste nel trattare la lingua ordinaria, la lingua standard, in maniera che essa si presenti come la “restituzione” di una lingua originale, sconosciuta, che potrebbe essere una proiezione della lingua di Dio, e che investirebbe tutto il linguaggio» . La luce precede il fatto stesso, come dice Kaurismaki; per quanto possibile alle chiavi fornite dalla sua arte, Kaurismaki prova “a uscire”, cerca di porsi in quella luce originaria, di divenire sguardo. La formula della creazione, questa esitazione originaria, differimento, nell’immagine diviene fascinazione onirica, specchio. L’esperienza pre-soggettiva, ontologica dello sguardo, in una direzione che porta a Merleau-Ponty, coinvolge Roger Callois che in Le Mithe et l’Homme parla di psicastenia leggendaria , in particolare riferendosi al singolare fenomeno della moltiplicazione mimetica di “occhi”, gli ocelli: in natura sembra emergere un’onirismo evolutivo; per sottolineare quest’indistinto tra chi guarda o è guardato, si può ricordare il bambino che ben prima di acquisire un’identificazione soggettiva riconosce lo schema del volto, gli occhi, rispondendo con quello che noi interpretiamo come sorriso. Al di là dell’apparenza, come dice Lacan, non c’è la cosa in sè, c’è lo sguardo. Rovatti parla dell’esercizio del silenzio come sospensione, esitazione; cita Dove gli angeli esitano di Bateson per individuare quell’esperienza paradossale che è la nostra. Sul margine del paradosso, verso il rischio dell’incomunicabilità si avventura l’onesta opera dell’artista. L’umoristica auto-ironia di Kaurismaki gli permette quella particolare deriva identitaria che può concedere esternazioni senza pericoli retorici di un “io” esemplare. In una “formula” silenziosa, per immagini, che diviene de-soggettivazione oltre che de-narrazione il piano etico ed estetico non possono che fondersi. L’anarchia, anche rispetto a se stesso, all’”io”, consente l’equilibrismo proprio all’arte di costruire, di organizzare il caso non in termini nevrotici, ripetitivi, a diretto contatto con il sottotesto in cui agisce il desiderante. Su questa via di liberazione dalla dittatura del verbo, nella “nudità” di cui si fa interprete, Kaurismaki si potrebbe dire, in una qualche declinazione particolare, regista della nuda vita . «Quando sul piano sociale si è perso tutto non resta che la fierezza. I pregiudizi sono un privilegio delle classi superiori. Nei ricordi dei campi di concentramento di Primo Levi (La tregua) e di Jorge Semprun (La scrittura o la vita) comprendiamo che anche quando la dignità fisica dell’uomo viene frantumata dalla macchina fascista, è possibile mantenere il rispetto di sé stessi» .
Ma preferiamo accomiatarci con altri ricordi, di un tempo in cui all’identità soggettiva era naturalmente dato sfumare nella luce accecante, quelli dell’infanzia finlandese, quando: «Il sole brillava tutto il giorno. E tutta la notte» .

 

Per la breve conversazione, da cui sono tratte le frasi contenute nel testo, con Aki Kaurismaki (a Bologna per il Premio Pier Paolo Pasolini e il Festival Le parole dello schermo) si ringrazia Tihana Maravic, che ha incontrato il regista finlandese la sera del 9 luglio 2007, presso il bar estivo della Cineteca.

Pier Aldo Rovatti per la questione sulla soggettività è intervenuto altresì con Il padrone è necessario (in L’insocievole socialità. Crisi della solidarietà e itinerari della soggettività, a cura di Lorenzo Toresini, Edizioni Alpha Beta, 2005), dagli atti del convegno presso Casa Basaglia ove Nazario Zambaldi cura il progetto Teatro che nel 2005 ha prodotto lo spettacolo NO (A Story of Wall Street) a partire dal testo di Melville sullo scrivano Bartleby (www.teatridisilenzio.com).

Con riferimento all’ultima parte del testo, Genesi dello sguardo s’intitola l’intervento di Nazario Zambaldi presso la Libera Università di Bolzano del settembre 2007 di prossima pubblicazione negli atti del convegno a cura di Barbara Ritter per l’Istituto Pedagogico della Provincia di Bolzano.
 

Peter von Bagh, Aki Kaurismaki.Dialogo sul cinema, la vita, la vodka, p. 121

Ivi, p. 89

Gilles Deleuze, Giorgio Agamben, Bartleby. La formula della creazione, p. 16

Peter von Bagh, Aki Kaurismaki, Dialogo sul cinema, la vita, la vodka, cit., p. 205

Ivi, p. 98

Ivi, p. 18

Pier Aldo Rovatti, Abitare la distanza. Per un’etica del linguaggio, p. 58

Peter von Bagh, Aki Kaurismaki, Dialogo sul cinema, la vita, la vodka, cit.,p. 186

Gilles Deleuze, Giorgio Agamben, Bartleby. La formula della creazione, p. 16

Ivi, p. 15

Sul tema: Paolo Gambazzi, L’occhio e il suo inconscio                               

Al principio del capitolo intitolato significativamente Un occhio appeso al collo, in Pier Aldo Rovatti, Abitare la distanza. Per un’etica del linguaggio, cit.

Giorgio Agamben, Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita

Peter von Bagh, Aki Kaurismaki, Dialogo sul cinema, la vita, la vodka, p. 187

Ivi, p. 11

 

 

Da "Carte di Cinema", n. 22, Bologna, dicembre 2007